Antologia critica
Cesare Vivaldi “Tano Festa” 1961
testo di presentazione della prima personale dell’artista alla Galleria La Salita di Gian Tomaso Liverani,Via di San Sebastianello Roma, 3 maggio 1961
Con una disinvoltura ed un’autorità davvero sorprendenti per un giovane alla sua prima mostra personale, Tano Festa viene ad inserirsi in quella ristretta pattuglia di punta della pittura italiana ed internazionale che opera nella zona d’intersezione tra istanze neodadaiste, neogeometriche e novorealiste. Di suo, già fin d’ora Festa immette nel coro una nota particolare, una stralunata fissità di sguardo, un senso ritmico esasperato e insieme una sorta di innocente stupore: la meraviglia delle proprie capacità manuali, della perfezione del prodotto che gli è riuscito di costruire, della felice realizzazione della sua idea pittorica. Tano Festa dipinge nel modo caparbio e ostinatamente candido con cui un bimbo si delizia nel correre strisciando un bastone lungo un’interminabile cancellata: le ineguaglianze di ritmo sono percepite “dal di fuori”, e sono indipendenti dalla velocità fissa della corsa. Quel che conta in questa pittura, vogliamo dire, è la realizzazione di un’idea di spazi continuamente aperti ed interrotti su di una superficie; per continuare nella metafora, quel che proprio la fissità della corsa, anche volendo dare per accidentale e intercambiabile il distribuirsi di tali spazi, il modo con cui essi sono scanditi (operazione di fatto condotta con un rigore estremo), aperti e interrotti o chiusi. Lontanissima la geometria euclidea di Kandinsky o Malevic dalla geometria puramente pretestuosa di Festa e di altri giovani; l’azione oggi può espandersi anche in formule geometriche o geometrizzanti, ma senza rinunziare ad essere anzitutto azione. E gli schemi esteriori, nel caso di Festa, sono così semplici ed elementari da porre decisamente l’azione in primo piano. Niente altro che un ritmo orizzontale di elementi verticali, interrotto o ripreso senza come, senza quando, senza perché. Il significato sta nell’azione di interrompere, la poesia nel gesto non utilitario calato in un manufatto di esecuzione impeccabile.
Cesare Vivaldi 1963
(Recensione alla prima mostra di Festa alla Galleria La Tartaruga, parte dell’articolo “Le mostre a Roma”, uscito sulla rivista “Le Arti”, a.13, n.6, giugno 1963, p.26).
Le ascendenze che Tano Festa si riconosce ed ostenta persino nei titoli dei suoi quadri sono i pittori olandesi della linea che da Vermeer arriva sino a Mondrian e la pittura metafisica di De Chirico e Carrà. La contraddizione fra tanti elementi, a prima vista inconciliabile, è solo apparente: poiché Festa guarda alla pittura d’interni seicentesca e alla spazialità di Mondrian con occhio “metafisico”, e riduce la pioggia luminosa di Vermeer e il tenero, sensibilissimo palpito che s’insinua come un sospiro tra la rigidità delle impalcature neoplastiche a un bianco fitto e polveroso, denso da tagliarsi col coltello, a uno spazio “cieco”, che diventa paradossalmente vuoto per troppa pienezza. Pur subendo una tale riduzione lo spazio non è però negato. Il lavoro di Festa è ancora un lavoro sullo spazio e sulla luce e le sue ascendenze, vicine e lontane, non sono affatto velleitarie ma, a loro modo, funzionali e funzionanti. Proprio questo – per venire subito al punto cruciale e obbligato di qualsivoglia discorso si possa fare sull’arte del giovane pittore romano – differenzia le sue “finestre”, le sue “persiane”, le canne d’organo che egli chiama “Omaggio a Albinoni”, in una parola i suoi “oggetti”, dagli assemblages novorealisti o neodadaisti. Gli oggetti costruiti da Festa vivono in uno spazio inventato, che non è quello della vita quotidiana ma lo spazio poetico dell’arte. La “rugosa realtà” è trasformata con un accanito lavoro che si esercita tanto sullo spazio interno all’opera quanto sullo spazio esterno, la parete o l’ambiente. Accecanti di bianca luce calcinata le “finestre” resistono, e assumono in quest’atto il loro significato, al furioso torrente galattico che le invade; pongono tra parentesi un cielo nemico alla vita, popolato da invisibili ultracorpi. Isolate da ogni usuale contesto, le “persiane” sono l’equivalente perfetto, collocate su una qualsiasi parete di una qualsiasi stanza soggetta al normale tempo umano, del “manichino” metafisico: segnano un’ora “diversa”, scandiscono uno spazio diverso. Tano Festa ha saputo dunque approfittare della lezione metafisica (e surrealista) di quel tanto che gli era necessario per arricchire d’una nuova dimensione le proprie esercitazioni spaziali. Certo: le sue “camere incantate” non sono dipinte. Però ogni camera può divenir tale, egli ci insegna, quando il suo spazio sia modificato da qualcosa che provochi, con la sua sola presenza, un’impressione di spaesamento. Lo “spaesamento” surrealista dall’interno del quadro è spostato all’esterno: l’opera d’arte stessa, in inconsueta relazione rispetto all’ambiente, è “spaesata” e insieme oggetto di spaesamento. Ma le intenzioni di Festa (e i suoi umori culturali di pittore attentissimo a tutti i fatti e gli episodi artistici) sono varie e molteplici, ben lontane dall’esaurirsi nelle componenti sin qui sommariamente enunciate. Nei suoi oggetti c’è anche come un leggero odore di art brut: meglio ancora il patetico, commovente ricordo dei pittori d’insegne cari a Rimbaud e degli imbianchini che piacevano a Soffici. Non per nulla le “persiane” sono un contraltare rivoluzionario alle finte finestre che, per amor di simmetria, adornavano e tuttora adornano le facciate di molte case di provincia, in Toscana, in Liguria, in Piemonte e altrove; idiotismi di capimastri legati al lavoro da una gentilezza asciutta, per nulla deamicisiana, tutta ingenua, concreta fabulazione. Rigoroso e semplice, ideologicamente complesso ma svolto sempre secondo linee il più possibile dirette, nitide e scarne, quasi elementari, il lavoro di Tano Festa è uno dei più definiti e dei più interessanti nel quadro delle ricerche artistiche dell’ultima generazione, in Italia e fuori. Egli può sembrare muoversi, a volte, per proposizioni estreme, ma i suoi risultati – per chi sappia guardarli con quel minimo d’amore e d’interesse che le opere dell’ingegno richiedono – sono genuinamente poetici, toccati spesso dalla grazia.
Giorgio De Marchis 1963
testo di presentazione della mostra personale dell’artista alla galleria la “Tartaruga”di Plinio De Martiis, Roma, 6 maggio1963
Dopo la mostra alla Salita nel 1961 questa è la prima importante mostra romana di Tano Festa. Nel frattempo i caratteri della sua opera si sono molto chiariti. Nel 1961 si poteva anche parlare di neocostruttivismo di fronte ai suoi grandi riquadri di legno dipinti in compatte sezioni di rosso e di nero. Oggi il discorso è più complesso, forse cambiato, e serve comunque a meglio intendere anche le opere precedenti. Quelle superfici incorniciate di listelli di legno, quei rettangoli e quei quadrati erano, come dice oggi lo stesso Festa, la verifica d’un certo linguaggio. Quale linguaggio? Quello che rimonta a Mondrian e che arriva fino a noi attraverso l’informale: il linguaggio della ragione, in cui l’introdursi della materia sposta la possibilità di verifica dal concetto al mondo dell’esperienza. Ma questi intenti razionali, nell’uso di quel linguaggio, c’erano poi in Festa? Questo linguaggio “verificabile” serviva davvero a produrre dei valori semantici razionali, delle strutture, sia pure come ipotesi? Non c’era forse già altro in quei “vuoti accecanti contenuti dalle cornici”? Già nelle Stanze del Vaticano c’era un illusionismo decorativo di sapore cattolico ben diverso dal rigorismo di Mondrian. La produzione di oggi ci mostra dei veri e propri oggetti: finestre, armadi, porte, specchi (di cui c’è un curioso precedente dada nel Portrait d’un imbecile), obelischi. Oggetti costruiti in legno e verniciati a smalto. Oggetti veri, ma non certo objets-trouvés. Non relitti di oggetti che hanno vissuto come tali, ma oggetti costruiti dall’artista: non c’è una gran differenza tra una persiana vera e una di Festa, se non nell’ambiguità del quid est veritas? Che cos’è la verità? Platone lo avrebbe cacciato dalla repubblica. L’immagine è costruita con la stessa colla, legno, vernice della cosa. Lo spazio dell’immagine è lo spazio materiale dell’oggetto, misura e limite del suo esistere e non di altro: lungo tanto, spesso tanto, largo tanto, impenetrabile ad altro. La finzione non è più sulla tela o sul muro, dove Masaccio dipinse “quadri pieni di rosoni, che diminuiscono e scortano così bene, che par che sia bucato quel muro”, ma è nell’oggetto stesso, nella coincidenza dell’immagine e della cosa. Questo legno costruito, piallato, squadrato, incollato, verniciato mi dà un “doppio” del reale. Siamo molto lontani dalla riduzione della cosa a segno, propria dell’informale, dal riconoscere la segnicità e dunque la realtà dell’arte, e dall’impegno a produrre il reale. Qui la costruzione, il gesto (di cui resta traccia nella stesura del colore), la materia, la misura, ritrovano un oggetto abituale, riconoscibile, che porta il suo nome al di fuori dell’operare, che io riconosco e che nello stesso tempo mi appare indecifrabile. L’esistenza delle cose come esteriore e indipendente dalla coscienza, come fondamentalmente priva di significato, è stata indicata da Sartre nella Nausea ed è passata nell’école du regard, e di peinture du regard si è parlato a proposito di Festa in questo minuzioso recupero di oggetti che non servono a niente, di oggetti che non funzionano, solo presenti continuamente alla vista nella vita quotidiana. Ma questo riproporre l’oggetto come cosa e come immagine, come apparenza e come realtà, ne fa qualche cosa di ambiguo; alla certezza del riconoscerlo si unisce il sentimento che sia annuncio d’altro, cosicché più giusto pare un riferimento alla pittura metafisica esplicito in certi titoli come Nostalgia dell’infinito, e il tema stesso degli oggetti di mobilio è di gusto metafisico, ma soprattutto l’aria vagamente onirica di questi oggetti così solidi e spessi cui la copertura di colore, come il bianco porcellanoso dell’obelisco, dà un valore irreale proprio nella loro veste visibile. Lo stesso tema iconografico pone l’oggetto non solo come realtà percepita, ma come soglia, o come limite, di visione, di rivelazione: la porta, la finestra, lo specchio (ma guarda un po’, quello non è Tano Festa?). La ambiguità di cosa e di immagine si compone in una realtà intesa come veicolo ad un senso riposto. Il recupero dell’oggetto diviene recupero del mistero. Costruire si risolve ad evocare il senso nascosto dietro il reale; l’opera dell’artista oscilla tra il sensibile e l’emblematico. Il ritorno all’esperienza si rivela un ritorno all’apparenza: dietro la facciata del mondo su cui l’occhio rimbalza, trappola o prigione in cui si esercita il nostro fare, dietro lo schermo impenetrabile dei sensi, il vero fine e il vero significato del mondo si celano, mistero o rivelazione. L’esorcismo di Tano Festa sembra raccogliere l’eco secolare della voce di fra Cipolla: Verbum caro fatti alla finestra.
Lorenza Trucchi 1963
“La prima personale di Festa alla Galleria La Tartaruga”, 6 maggio 1963
Tano Festa, che ha allestito una nutrita personale alla Tartaruga, sembra aver sciacquato il suo neo costruttivismo nel Tevere. Una patina romana umanizza le sue “finestre” (fino a ieri completamente tinteggiate in rosso e nero) dalle quali già si affacciano invitanti volti di donne, e l’immagine sorridente dello stesso pittore, mentre i battenti dei suoi “armadi” si maculano di vecchie patine allusive che sarebbero persino piaciute al romanissimo Scipione.
Festa ha dunque inserito il racconto nel suo tardivo momento razionale.
Colpa o merito di Roma, città per eccellenza non logica, dove l’ultima sparuta stirpe degli eredi di Mondrian finirà presto con avere il respiro affannoso e il passo militaresco appesantito dalla tramontana. Meglio quindi la sosta all’ombra degli obelischi (il massimo della linea retta che sappia darci questa città di curve), magari rifatti in legno e verniciati di lucente smalto bianco come questi, esposti alla Tartaruga, fabbricati da Festa non senza una malcelata nostalgia metafisica. Meno Mondrian, dunque, e più De Chirico, sia pure rivisto attraverso l’occhio barbaro e candido di un Jasper Johns o di Jim Dine.
(Recensione alla prima mostra di Festa alla Galleria La Tartaruga, parte dell’articolo “Le mostre a Roma”, uscito sulla rivista “Le Arti”, a.13, n.6, giugno 1963, p.26).
Pierre Restany “Tano Festa et la porte étroite” 1963
Milan, octobre 1963
De nombreux indices, en apparence épars et d’intérét fort divers, mais dont l’insistance depuis trois ou quatre ans est significative, traduisent en Italie 1’avènement à la conscience artistique d’une génération nouvelle, que l’on pourrait bien appeler la génération de 1960. Ces artistes de moins de trente ans ont fait le bilan d’un style et d’une époque; leurs recherches d’un renouveau du langage marquent la fin de l’esprit de l’après-guerre; un chapitre de l’art italien contemporain est définitivement tourné. Une autre particularité de la génération de 1960, c’est son implantation géographique: l’épicentre en est à Rome et non pas à Milan. Le fait valait la peine d’étre signalé et c’est ce que j’ai fait dans ma préface à la première exposition d’un groupe de cinq de ces jeunes artistes qui eut lieu en 1960 à la Galerie La Salita à Rome. Tano Festa en faisait précisément partie, avec Angeli, Lo Savio, Schifano et Uncini. J’avais connu tous ces artistes un an auparavant en pleine occultation et je pense de plus en plus que ma confiance n’était pas mal placée. L’evolution de Festa durant ces quatre dernières années s’est accomplie sous le signe de la plus grande rigueur. Ses premiers essais furent des expériences chromatiques dérivées de l’esprit de la monochromie: reliefs-collages aux bandes verticales en épaisseurs, d’une seule couleur rouge parfois mariée au noir mais changeant de valeur dans les tons. Plus encore qu’Yves Klein c’est sans doute Rothko qui influenga profondément le jeune artiste romain à ses débuts. Les « murs de lumière » de Rothko fournirent à sa réflexion active le cadre mental qui lui était nécessaire, orientant d’un trait l’axe fondamental de sa démarche. Mais si Festa avait ainsi trouvé son « problème » il n’avait pas encore trouvé son langage, son vocabulaire, l’incarnation de l’idée dans le fait plastique. Après de nombreux exercices de style, variations abstraites sur le thème de la monochromie, la vision du peintre a trouvé les voies réalistes de son incarnation. En pleine Logique. La définition de l’espace chez Festa a toujours été d’ordre géométrique; un dessin exact sous-tend la composition: différents plans en relief, aux lignes pures et aux formes simples. Il a donc cherché dans la réalité quotidienne la traduction objective de ce schéma mental de base. C’est ainsi qu’il devait « découvrir » les formes archétypiques de l’existence sociale, les instruments objectifs de la communication entre les hommes qui vivent en société: la fenétre, le volet, la porte, le miroir. Les portes donnent parfois sur le vide, me direz-vous. Le fenétres sont souvent fausses, les persiennes ne ferment pas, les amiroirs renvoient une image domestiquée et complaisante. C’est la vie: que puis-je vous répondre d’autre? Ces aléas de la communication, cette constante du hasard, ce poids de la solitude font partie des risques techniques de notre existence. Festa très honnétement nous démontre la fausseté des proverbes: que nous importe après tout qu’une porte soit ouverte ou fermée? Au pied du mur, devant la porte ou la fenétre, il n’y a plus de dedans ni de dehors, il n’y a que nous, en nous-mémes, avec nous-mémes. Festa nous ramène, objectivement, au seuil de notre conscience. Sans commentaire, dans la pure rigueur des objets simples, ces portes et ces fenétres nous assignent à l’existence, d’une façon quasi-physique. Les couleurs, sobres et froides, ont la banalité de la série, du produit standard, du toutvenant moderne. Cette banalité est la norme de notre destin, exception faite des accidents. Les portes de Festa ont une présence à la fois nécessaire et suffisante. Elles ne sont ni mystérieuses ni complices; elles ignorent l’accident, ce n’est pas leur role. Elles sont là, voilà tout. L’objectivité de leur présence, parfaite, leur confère cette dimension heideggerienne de l’immanence qui est l’étalon de tous les états d’ame de la psychologie moderne. Ce que Festa a su nous apporter, simplement, sùrement et de façon si precoce, c’est une dimension d’étre à travers un moment nul de notre action (on hésite toujours devant une porte et c’est alors qu’il ne se passe rien) et au niveau zéro de l’existence. Les portes de Festa, bien sur, ne sont pas effectivement « communicantes » comme le serait une porte de Jim Dine par exemple. Ce sont en revanche de faux instruments de relation qui nous font rentrer en nous-mémes. Un avantgoút de cette existence sans relation, la positivité de la mort. La force simple et la présence directe d’une telle vision sont troublantes. Il n’y a là ni spéculation sur l’insolite ni sophistication littéraire de l’objet mais quelque chose comme un enracinement aux sources du réel. Ces formes objectives prennent tout naturellement l’apparence des retables, dyptiques ou polyptiques d’autrefois: si cependant elles ne comportent aucun signe hagiographique, c’est qu’elles ne sont ni des icones ni des fétiches, mais des objets sans destination mystique, les réels buttoirs de notre existence. Des objets qui nous aident à vivre dans le Présent et non à nous evader dans la transcendance. Festa, on le voit, a choisi le fil du rasoir. Le chemin est dur, plein d’embliches; souhaitons-lui de passer par sa Porte Etroite.
Marisa Volpi 1965
testo di presentazione della mostra personale dell’artista alla galleria “Notizie”di Torino, 11 febbraio 1965
Quando ha avuto fine l’espandersi creativo delle tecniche informali ci si affrettò a sotterrarne il significato assumendo come validi in contrapposizione episodi marginali, spesso preesistenti l’informale stesso; nessuno in Italia faceva sapere che a New York già nel 1955 lavorava Jasper Johns, il pittore che è all’origine della pop-art, nessuno rilevava che a Roma gruppi di artisti si erano sempre tenuti su una linea consapevolmente formalistica. L’unico elemento che era veramente esaurito dell’informale, l’aspetto vistosamente drammatico dell’espressionismo, divenne per alcuni il carattere distintivo della nuova immagine: larve e mostri si fecero strada tra critici e pittori che intendevano palesarsi in extremis anticonformisti. Si gridò alla scoperta della nuova figurazione, mentre le direttrici fondamentali del nuovo corso post-informale escludevano, proprio come reazione intellettuale e di gusto, ogni elemento enfaticamente soggettivistico, ogni diario di emozioni, ogni contatto viscerale tra tecniche espressive e contenuti visivi. Il critico attento, nei centri più vivi dell’arte contemporanea, avrebbe rilevato, tra i giovani soprattutto, un bisogno di secchezza, di durezza, 2 di limpidezza, per esprimersi in termini esemplificativi. Così, la scolatura, residuo della tecnica del dripping, rimase per qualche tempo, in molti casi anche opposti, come il segno di una irreversibile acquisizione di totale autosufficienza del linguaggio, e venne combinata virtuosisticamente ad altre tecniche, ad altri contenuti. L’enfasi sulla autonomia espressiva del gesto e della materia scomparve, ma non scomparve l’uso della gestualità e della materia. Tutto venne relativizzato in un contesto nuovo. Abbiamo accennato a questi precedenti, perché l’innata abitudine dei critici italiani di snaturare il significato di un linguaggio artistico falsandone le prospettive storiche e affrettandosi a dare l’imprimatur dell’ultim’ora, non contribuisca a confondere le acque già confuse di una lettura appropriata. Festa, Angeli, Uncini, Schifano e Lo Savio, esposero a « La Salita » di Roma nell’ottobre del ’60 presentati da Pierre Restany; e fu una vera mostra d’avanguardia. Era evidente fin da allora che, tra pochissimi in Italia, avevano compreso in tempo, che l’esigenza di uscire dall’informale voleva dire proprio liberarsi dell’ultima convenzione su cui esso faceva perno: quella dell’autenticità, intesa come dono totale e romantico di se stesso. La maggioranza dei quadri di Festa esposti in questa mostra appartengono al periodo astratto, quando cioè quell’opposizione all’informale scaturì spontanea nella geometria degli spazi, nel ritmo dei rapporti, nelle stesure nitide del colore, in quella reattiva violenza che ha ispirato le opere dell’hard edge (alcune raccolte ed esposte da Greenberg a Los Angeles, Minneapolis e Toronto col titolo Post Painterly Abstraction). Festa riportava sul legno un disegno, cioè opponeva alle tecniche dell’immediatezza un progetto, che richiedeva per essere realizzato un’elaborazione precisa. L’utilizzazione di materiali diversi dalla pittura tradizionale era anche per lui una libertà acquisita dall’informale, così la sperimentazione senza limiti della funzionalità delle tecniche e delle forme, che soprattutto l’America aveva rilanciato nella reviviscenza vitale del repertorio visivo e manuale scoperto dal dadaismo. Tuttavia i quadri del 1961 si attengono al gusto di una pura asserzione formale (ce ne sono alcuni di quel periodo per es. intitolati « dattilo »): strisce verticali aggettanti costituiscono con i loro rapporti di rarefazione o di infittimento l’articolazione basilare dello spazio, le stesure di colore sono studiate in relazione con l’oggetto, ne rincalzano la verticalità ne sottolineano i ritmi, ottenendo un risultato di rigore e di purezza plastica. Ma potremmo dire che il surreale era in agguato: anche nei tagli più puri, il lavoro di carpenteria, l’uso spettacolare del nero, del rosso, del bianco, (o del nero e dell’argento) suggeriscono il gusto dell’artificio, e se vi è presente un’esemplificazione musicale, essa è tratta dalla musica barocca. Così Festa si accosta ad un tema, singolarmente suggestivo per chi volesse darne una spiegazione analitica: il tema della porta chiusa, o finestra, o armadio, o specchio. E qui ricordiamo l’importanza degli objets-troués di Duchamp, l’artista dal quale per la prima volta venne preso nella giusta considerazione il caso, e posto alla ribalta metodicamente, senza filosofemi, né alone poetico: la finestra, e altri oggetti di Duchamp, e dei dadaisti, sono divenuti per l’arte moderna degli archetipi. Il dadaismo ha interessato anche l’opera di Rauschenberg e di Johns, e in genere della pop-art, come recupero dell’oggetto non più classificabile come rifiuto cioè delle classificazioni derivate da una convenzione distrutta o da distruggere. Ma con essi il non-senso si è reinserito in un ordine, ha riacquistato una simbologia. In questa congiunzione di non-senso e simbologia si alternano possibilità di declinazione analitica o metafisica dell’oggetto: o gioco che ci aiuta a vivere o gioco che ci aiuta a morire. Il giovane artista romano è rimasto sospeso appunto tra una manualità semplificatrice da tabellone pubblicitario, e l’aulicità di uno spazio tipicamente italiano che, incorniciando o incorporandosi con l’immagine « riportata », l’allontanasse in una attonita sospensione fuori del tempo, simile a quella dei pesanti enigmi dechirichiani. La mostra si ferma praticamente al 1963, con due soli quadri del ’64, e cioè, nella tensione tra le due componenti del lavoro di Festa, trouvaille e rigore compositivo, suggestione metaforica e astratta asserzione formale, preferisce sottolineare evidentemente l’aspetto di nitido gioco, nel quale la fantasia scenografica, la sorpresa, l’artificio, rimangono ermeticamente sostenuti dal ritmo compositivo.
Maurizio Fagiolo dell’Arco IL PLANETARIO DI TANO FESTA 1968
testo di presentazione della mostra personale dell’artista alla galleria “La Chiocciola” di Padova, 1 febbraio 1968
La pittura di Tano Festa si inserisce nel filone della figurazione « novissima », calamitata dalle immagini della metropoli, dai nuovi miti e riti della società. 1961. Festa espone alla « Salita » una serie di superfici basate sul monocromo e sull’estremo rigore formale. Vivaldi lo situa nel punto di incrocio tra neo – dadaismo, neo-geometrismo e nuovo -realismo. 1962-1963. E’ il momento degli armadi, delle persiane, delle porte, dei pianoforti, delle lapidi, degli specchi (esposti alla « Tartaruga » di Roma, da Schwarz a Milano, e alla « Galerie J » di Parigi). Festa vuole adattare al suo rigido purismo alcuni pezzi dell’arredamento, e cerca i più solidi, quelli che hanno i contorni più taglienti (all’inizio, naturalmente c’è il Duchamp di Fresh Widow). Vuole dare una personalità alla geometria, un peso terreno alla mistica del rigore: è una rottura all’insegna della costruzione, cerca di ritrovare le dimensioni di un ordine interno, prima di avventurarsi fuori, prima di aprire le finestre sul cielo o le porte all’interno del museo. 1963-1964. All’improvviso Festa sembra accorgersi di aver compiuto un cammino rettilineo e molto logico, comprende che gli spazi aperti degli inizi si erano racchiusi nella scansione del fotogramma. E allora comincia a proiettare sul piano del quadro un documentario: il primo passo per un regista. Ecco così nei fotogrammi duri come infissi entrare le figure di Michelangiolo, i souvenirs di paesi lontani, le foto porno di donne, la presenza dei cieli. Dopo aver ritrovato lo spazio, Festa appresta i materiali per una narrazione completa, quella appunto di oggi. L’immagine è « alienata » (e quindi rimanda alla Metafisica, come ha scritto Calvesi) ma rimane terrestre il mistero di quella pellicola che lentamente si impressiona per fissare i pezzi della macchina mondana. 1965: le dimensioni del cielo. E’ la contemplazione attiva d’un cielo, che in tal modo diventa un gran telone di cinerama, come la vasta calotta di un planetario su cui proiettare sogni e ricordi. La proiezione sarà una scultura di Michelangiolo, sarà un omaggio a Picasso: il quadro Il periodo blu unendo Michelangiolo a Picasso celebra con ironia le nozze tra il « sublime » antico e moderno. La proiezione sarà una tavolozza (che somiglia tanto a una nuvola), sarà una nuvola (che somiglia tanto a una tavolozza); sarà la nuvola polverizzata negli infiniti punti (Indagine sul punto si chiama un quadro, evidente omaggio a Kandinsky). La proiezione sarà quella di diapositive della op-art, giunta negli USA, e non sembri un gioco, al settimo cielo. E’ da notare il nuovo rigore costruttivo in questi cieli che non sono evocazioni di tono impressionistico, ma diagrammi statistici della natura. Ecco spiegarsi così Cielo meccanico e Le dimensioni del cielo. Si sovrappone al cielo azzurro una serie di righe snodabili, il necessario confronto di misurazione, perché anche il cielo è un fatto umano. Una nuvola può diventare piccola come la tavolozza del pittore, uno spazio che sembra infinito può rivelarsi profondo come l’apertura completa di un metro snodabile. Il cielo non è diverso dalla nostra terra quotidiana: la natura non è un mondo da contemplare ma un mondo (finalmente) da investigare, da misurare, da schedare. Una grande immagine occupa tutto il quadro, e poi si sovrappone una serie di piccole immagini inquadrate in zone che funziona come lo scorrimento verticale di una pellicola. Giocano, questi quadri, sul doppio piano grande/piccolo, intero/particolare: sono veri « film a soggetto ». Festa viene così a criticare l’ingigantimento polemico dell’oggetto, ma anche lo spezzettarsi del frammento, con una immagine che è insieme una e tante, che è tutto e parte, presentazione e rappresentazione. Non c’è l’accozzarsi confuso e ormai scontato di vari pezzi di realtà ma quasi una visione con un doppio cannocchiale, usato prima al dritto e poi al rovescio. E la metafora è più che mai giustificata, oggi che Festa guarda esclusivamente al cielo. Nessun sospetto di naturalismo: qualche volta il filtro che si frappone tra noi e l’immagine totale serve proprio a far perdere i connotati al pezzo inquadrato (ovvero « inquartato », come nell’araldica). E quel frammento viene a configurarsi come una impossibile mappa, con i suoi fiordi in azzurro-blu-grigio: una immagine «altra », perché la pittura è anche « cosa mentale ». Come si fa a riconoscere nella cellula, vista al microscopio, un brandello del corpo umano? Ritornarono tutti i leit-motiven della sua ricerca. Questi pezzi di pellicola impressionata sovrapposti al cielo sono anche specchi dell’esistenza in terra (ricordiamo la serie di Specchi). Resta anche il senso della « finestra » in questi fotogrammi, della finestra aperta sul mondo, incastrata sul cielo al di là del mondo. Ovvero, questi riquadri successivi sono come filtri sovrapposti al resto del quadro, e a volte influiscono coloristicamente e a volte figurativamente: introducono lo spazio della memoria. Sono infinite le necessarie cornici (vedi gli scorrimenti, i disturbi in diagonale, le scale di colore) per un omaggio-oltraggio alla op-art. C’è insomma una ambiguità perenne, perché lo specchio rimanda al fotogramma, il fotogramma allude alla finestra, la finestra rivela il filtro, e lo spazio (ancora una volta) non è uno ma tanti. E’ il luogo individuato da molte sovrapposizioni e non incatenato nella visione prospettica. E ‘ uno spazio costruito in vitro, non definito ma semplicemente evocato, e uno spazio senza aria perché nasce dalla proiezione delle immagini nel puro nulla.
Tommaso Trini “La pittura di Tano Festa” 1972
testo di presentazione della mostra personale dell’artista alla galleria Levi di Milano, 1972
Prima ancora di constatare che cosa Tano Festa ha fatto da dodici anni a questa parte che cosa, come, e perché ha dipinto – noi sappiamo grosso modo che cosa la cultura ha fatto del suo lavoro – la cultura, cioè la critica e il mercato d’arte. Sappiamo che lo ha annoverato tra i rappresentanti più attivi di quel gruppetto di testa (Festa, Angeli, Schifano, oltre a Ceroli e Kounellis, che indicavano altre vie di sviluppo in arte) a cui si deve, specie a Roma, il rinnovamento della pittura degli anni ’60. E sappiamo anche che da lì a poco lo avrebbe relegato nel limbo dell’attenzione interrotta.
Pur essendo attivo e presente, come sempre, Tano Festa si trovò in qualche modo emarginato dal fuoco dell’informazione sui topici del momento. Qualcosa si era rotto tra l’opera (la sua filosofia) e il sistema di comunicazione (gallerie, riviste) che pur aveva adottato l’opera (il suo prodotto); e questo qualcosa aveva a che fare, non con le idee di Festa e il loro sviluppo, ma con la logica dell’informazione sulla produzione artistica d’avanguardia. Sicché oggi ci troviamo a ragionare di un’opera più che decennale ricevuta per buona parte in sordina, di un gran numero di quadri-oggetti tele disegni poco noti, di un artista “difficile” da trattare sul piano storico e critico. È quel che si dice un “caso”. Non diremo affatto che è un caso personale (dal punto di vista del destino di ciascun artista, lo sono tutti): diremo anzi che è un caso “esemplare” che oltrepassa l’artista per rimandarci alla più vasta questione dell’avanguardia. L’anomalia della posizione di Festa sta semmai nel fatto che illumina emblematicamente l’uso che la cultura fa dell’arte. Le cose stanno pressappoco così.
Da decenni gli artisti più lucidi s’interrogano sul che fare davanti al vanificarsi delle funzioni conoscitive, le sole che contano, del loro campo di attività. Niente conoscenza, niente credibilità: possono è vero, continuare a intrattenerci, dilettarci e sublimarci, ma altri, con altre tecniche di comunicazione, lo fanno prima e meglio di loro. Tuttavia si trovano a disporre di un sistema, quello dell’arte, che ha questa strana peculiarità: pur essendo a bassissimo coefficiente sociale (se ieri era per una élite, per le nuove generazioni, oggi, è meno di una curiosità) è il sistema socialmente più sostenuto sulla base di semplici atti di fede. A sostenerlo vale più l’attesa dell’arte che non le novità eventuali proposte dal succedersi ininterrotto delle “nuove tendenze”. L’attesa dell’arte è la tradizione che le avanguardie o non hanno mai messo in crisi o, se lo hanno tentato, non hanno mai vinto. Per alzare l’indice di credibilità, si è anzi fatto leva su questa attesa col passaggio sempre più accentuato dall’estetica dell’oggetto d’arte all’estetica dello spettatore, quest’ultimo sollecitato ad essere partecipe, attivo, complice, ma mai a rimettersi in causa in quanto spettatore.
L’altro correttivo è consistito nel fornire all’arte contemporanea connotati di avanzamento, progresso, sperimentazione al pari delle nuove tecniche e delle nuove scienze. Ma poiché è solo un atto di fede, inizialmente di pochi adepti, che decide se un oggetto è arte oppure no, quei connotati si sono deteriorati, ogni volta e rapidamente, in avanguardismo e sperimentalismo: sequela di soluzioni spastiche date a problemi mai posti. Radicali sono stati solo coloro che in luogo di battersi contro la tradizione (anche contro la “tradizione del nuovo”) si sono battuti contro il sistema dell’arte. Dada fa testo, a far fuori l’arte non basta neppure esercitare l’oltraggio accompagnato a una serrata comprensione intellettuale della storia e delle funzioni dell’arte né la sua autocritica.
Ogni qualvolta la comprensione intellettuale dei problemi reali posti dall’arte ha permesso a un artista di rimettere tutto in discussione, l’attesa dello spettatore, tutta fatta di sensibilità ed emotività, ha tutto assorbito, ribadendo che il gioco può cambiare ma non le sue regole. Soprattutto, da attesa dell’arte si è fatta attesa dell’avanguardia. Col risultato che i committenti e destinatari dell’opera d’arte si sono modellati a immagine della composizione settaria dei gruppi d’avanguardia, si sono stratificati e divisi, hanno reso sempre più anonimo il rapporto con l’artista, sempre più profonda la distanza tra l’artista e il pubblico. Nell’isolamento in cui Festa ha lavorato in questi ultimi anni si manifesta oggettivamente questa crisi dei falsi avanzamenti. Si tratta di sapere in che misura essa è messa in evidenza, assunta come discorso, e non soltanto testimoniata, dall’artista stesso.
La verifica sta nel misurare il grado di divario o di coincidenza che si è avuta tra le proposte dell’artista e l’attesa dello spettatore nel corso dell’opera. C’è un primo ciclo, il più noto e apprezzato, che agli inizi degli anni ’60 rappresenta una più che visibile rottura con la pittura precedente, non solo informale. Una serie di “tavole” sono scandite in rettangoli verticali, separati da losanghe in legno, su queste fasce di spazio pittorico è incollata un velo di carta colorata, i colori sono alternati per rafforzare il ritmo della scansione, c’è una contrapposizione elementare tra rosso e nero, rosso e bianco, la carta s’increspa nell’incollatura fornendo un residuo di evidenza materica. Questa serie mantiene una freschezza inalterata e può collegarsi a certe soluzioni attuali sul discorso pittorico tese a mettere in evidenza la relazione intellettuale tra la tela e il pittore e il grado di visibilità della pittura nel mondo di tutti gli altri oggetti visibili. Segue più tardi la serie delle “finestre”, dove una consapevolezza ancora più lucida rimette in gioco la dipendenza delle forme pittoriche dalle forme del reale che circondano la presenza di un quadro. Le persiane, gli armadi, gli specchi che sostituiscono la tela dipinta con i loro oggetti tridimensionali sulla superficie del quadro, non sono oggetti reali che abbattono l’immagine, secondo i modi novo-realisti e neo-dada che in quegli anni (dal 1961 al 1964) sono di moda; ricostruiti, velati da colori che rimandano alla presenza del pittore, questi quadri-oggetti sono al contrario icone figurative; introducono la forma pittorica nelle forme della realtà e non viceversa; è una finestra che io vedo diventare pittura, non una pittura farsi finestra. Così la pittura è nelle cose del mondo e Festa opera per rivelarcela.
Se una delle costanti di fondo dell’arte contemporanea ha visto accrescersi l’importanza dell’individuo artista rispetto agli oggetti che realizza, è perché questi ultimi vivono solo di transizioni formali, di sviluppi non dimostrabili, di facili involuzioni, e restituiscono alla sola presenza dell’artista ogni segno di autenticità se non di assolutezza. Negli anni in cui apparsero a Roma, le opere di Festa furono prese in considerazione perché trasgredivano ai moduli stanchi della pittura d’avanguardia precedente, ponevano nuove prospettive. Tavole e quadri-oggetti costituivano un’evoluzione di linguaggio in termini di pittura oggettiva, superamento della dicotomia tra rappresentazione e realtà rappresentata, tecniche extra-pittoriche e contaminazione tra arte e vita. Festa aveva autonomamente anticipato le migliori risoluzioni della nuova arte oggettuale degli anni ’60, in alcuni casi precedendo gli stessi colleghi romani, e questo fatto lo aveva collocato di diritto nella logica dell’avanguardia. La sua produzione successiva mostra che Festa ha seguito una strada che lo ha portato a trasgredire a questa logica, spesso imposta, sia perché non coincideva con l’opera già fatta, sia perché non si dà opera da fare cui possa preesistere una logica di sviluppo.
Un pittore, Tano Festa, che agisce in base a un proprio pensiero e non solo in forza delle proprie urgenze espressive. Che traduce in pittura finestre chiuse, armadi ottusi, specchi opachi, per additarci non un mistero al di là di essi, ma semplicemente la sua presenza di pittore al di qua di essi: colui che affronta tutti i possibili mondi della pittura. Vedremo che tutti i soggetti scelti nei cicli successivi si rifanno esplicitamente a elementi iconografici e a trattamenti pittorici codificati dalla storia dell’arte. Il filo è dunque dipanato, dopo aver visto che il tema del ciclo iniziale di Festa è la sua stessa condizione di pittore, possiamo seguirlo nell’affrontare il contraltare di quella condizione: se una finestra è chiusa perché è un quadro davanti a cui sta un pittore, quando per avventura si apra, si constata che dietro ci sono soltanto altri quadri, perché dietro alla pittura c’è soltanto altra pittura. Nel mezzo degli anni ’60, Festa sembra così deviare verso la pratica di quella “nuova figurazione” che costituisce sul plano storico una via senza sbocchi, e che in qualche modo gli aliena l’attenzione dei critici. In realtà, egli continua a fronteggiare, con l’introversa tensione che fa parte del suo stile di comportamento più che del suo pensiero, il suo tema di base.
Riprende elementi iconografici dell’arte del passato, in particolare da Michelangelo (Cappella Sistina, la “Notte” della Tomba Medicea, ecc.), li tratta con estrema libertà, al di là della moda, abbastanza cerebrale, della citazione, li riproduce quasi meccanicamente, iterando le immagini, riducendole a cliché o parti minime indivisibili di un linguaggio che richiede di essere continuamente riscritto. L’uso dell’immagine riprodotta fotograficamente si combina col trattamento più freddo, distaccato e meccanico delle immagini dipinte (vedi i “cieli meccanici” del ’65).
Quanto alle intenzioni espressive, di cui noi abbiamo fin qui tenuto poco conto, forse perché davvero contano poco, si concentrano soprattutto nel definire le immagini come prodotti della memoria, e in particolare della memoria dell’arte. Nel ciclo più recente, Festa nomina addirittura questa memoria dipingendo su tele i nomi dei grandi protagonisti dell’Impressionismo; ma qui è recuperata di quell’arte passata solo il dato più tecnico: non le immagini della “peinture en plein air”, ma le sue conquiste più vere, cioè nuovi colori e nuovi modi di pennellare e concepire la testura della tela. Così vediamo che í nomi dipinti di Manet o Pissarro hanno la medesima funzione delle finestre esplicitamente richiamate in precedenza: dichiarano subito il soggetto del quadro, affinché la mente sia libera di captarne il pensiero. Questo pensiero è né più né meno che una ulteriore riflessione sulla pittura, intesa non nei suoi termini più astratti e generici, ma ancora una volta come barriera su cui si esercita la quotidiana pratica pittorica dell’individuo Tano Festa. Ovviamente è una barriera a cui seguono altre barriere, ma che tuttavia bisogna pure continuare a fare indietreggiare.
Maurizio Calvesi 1975
testo di presentazione della mostra personale dell’artista alla Galleria d’Arte Cocorocchia,Via Montenapoleone Milano, 18 aprile 1975
Ognuno è sempre se stesso, ma il tempo può giocare a favore o a sfavore di questa costante, deprimendola o invece esaltandola, come un affresco che è là sul muro da un tempo indeterminato ma torna in luce grattando l’intonaco o lo sporco di cui era coperto. Proprio come affreschi antichi, queste pitture di Tano sembra che tornino a brillare, dense e cariche di memorie obliterate, come da sotto a una patina rimossa: in altre parole hanno come il palpito e la magia di una storia che torna a rivivere, a splendere sobriamente. Quale storia? Quella personale di Tano, certamente, che pure è una storia più lunga del breve tratto di tempo materiale in cui si è svolta, una storia compressa dal pensiero e dall’inquietudine che l’ha, da subito, accompagnata; dunque quella costante umana che è la personalità di Tano Festa. Ma anche la storia dei secoli e dell’uomo: è l’arco che Tano istintivamente tende verso Michelangelo, e attraverso Michelangelo al peccato originale, a questa ipotesi di male oscuro dell’origine, non è un arco di latta. È proprio un arco di pittura, di nero e di azzurro o di verde, un arcobaleno non della luce ma della tenebra, la grande falcata dell’immenso cavallo trionfante della morte sullo sfondo del cielo. Un arco di esperienza e di civiltà o di cultura, ma non solo, anche di biologia. Sul nero, le forme non sono ritagliate, ma nel nero si fanno strada, a frammenti ben staccati, a gore, a pacati laghi o lagune o lacune; più che forme sono infatti lacune, vuoti del nero che scoprono in richiami magnetici di colore, e il segreto è questa circolazione saltuaria del richiamo, questo aggirarsi silenzioso come le spire del serpente sui bui velluti dell’assenza. Che sia quest’assenza, quest’Altro, questa morte o questo Inconscio non ce lo puoi dire neanche tu, caro Tano, che pure sei uno dei pochi veri pittori e quindi dei più attendibili auscultatori dell’Altro. “Musica”? come nel suo Albinoni nero e oro; “interno”? come nei tuoi armadi e finestre; verticalità e peso, come nei tuoi obelischi? Caro Tano, noi ci stimiamo, appena beffardamente, da tanti anni, e sono tanti anni che dovevo scriverti queste poche righe, solo per te. Sono qui in galleria a farlo, con i tuoi bellissimi quadri intorno. E proprio un ora fa ho saputo che hanno di nuovo arrestato Mario. Abbracciamoci e teniamoci forte.
Italo Mussa “I miraggi” 1981
testo di presentazione della mostra personale dell’artista “I Miraggi”alla galleria “Soligo”di Roma, 1981
“Chaque visage apporte un horizon” (Jean Malrieu, La Vertu)
Le riflessioni di Tano Festa sul volto ignoto dell’arte risalgono agli anni Sessanta. Allora dominava la Pop-Art e il Nouveau Réalisme di Pierre Restany; ma c’erano anche altre esperienze aperte meno legate all’attualità. Come ad esempio l’aniconismo del quadro e l’iconismo (quasi post-moderno) della citazione. Ma la critica, che voleva essere all’avanguardia, seguiva più volentieri il solco tracciato dalla poetica delle tendenze. Così la pittura di Tano Festa subiva i molti “neo” allora in voga. Eppure, e ciò non poteva non saltare agli occhi, essa mostrava qualcosa di inquietante (diciamo pure di metafisico). La “verità” quotidiana dei materiali e dei colori trasudava silenzio, nostalgia per il passato, desiderio d’ignoto. Il vuoto subentrava al pieno, l’ombra alla luce, i contorni netti dei colori alle impronte decisive. Insomma Tano Festa, durante il regno delle tendenze, era “pericolosamente” esposto all’inattualità dell’arte. La Dimensione del cielo, la Porta, lo Specchio, le citazioni da Michelangiolo sono opere palesemente metafisiche, come aveva già intuito Maurizio Calvesi. Dunque non sono raffigurazioni “alienate”, mostrano piuttosto, con humour, una paura del vuoto ingombrante della memoria. Tano Festa aveva compreso che l’opera possibile era il risultato provvisorio di una “esaltante unione dei contrari”. L’inattualità metafisica potrebbe essere il centro oscuro della sua opera recente. Quell’esterno seducente è ora un’ansiosa intimità, lo smalto traslucido è tempera che splende colori opachi. La materialità della figurazione si schiude come un miraggio. Piramidi, palme, strani obelischi sono pronti a scomparire: lo splendore opaco dei colori primari trasforma in impronte indefinite, quasi inerti, come il taglio del paesaggio, la loro evanescente fisicità. Una fisicità ignota e fluttuante che muta l’intensità visiva della pittura.
Tano Festa pittore è una verità elementare, alla pittura è legata la sua avventura artistica.
E la pittura, infatti, che muove l’anteriorità essenziale della sua memoria, del suo avvenire poetico. Essa significa sontuosamente cominciamento, tuffo nel vuoto fantastico, avvenimento della mano e proiezione dell’occhio. I suoi riferimenti iconografici sono sempre altrove, in una nascosta figurazione soggettiva (prima era oggettiva). La dissimulazione è priva di significazione precisa (passi- va), ma allaccia istantaneamente e segretamente tra loro i dislivelli dell’ambiguità visiva.
La pittura di Tano Festa stupisce se stessa, per qualcosa che non c’è. La sua “apparition” schiude una figurazione spaziale inafferrabile, dove la effigie palma-piramide- obelisco-figura provoca momentanei spaesamenti. Lo sguardo dal di dentro dell’artista ha segnalato il percorso della mano, destando in chi guarda effetti di attesa. Effetti in cui la finzione riunisce la Figurazione soggettiva in un inquietante prolungamento, che sfonda l’attesa e insorge a plasmare il panorama lontano della pittura.
Achille Bonito Oliva “FESTA, POLTRONE EUROPEO” 1987
dal catalogo della mostra “Il colore dei Miracoli” Castello di Volpaia, Radda in Chianti, settembre 1987
«Peccato che la natura abbia fatto di te soltanto un uomo, perché c’era la stoffa per fare una persona di valore ed anche un mascalzone» (Goethe)… Il poeta tedesco sicuramente avrebbe riconosciuto in Tano Festa entrambe le possibilità, praticate in maniera delicata sul piano dell’opera ed in maniera quasi letteraria per quanto riguarda il modo di vita, consapevole e dimentico di se, laterale e corposo, ironico e afasico. Pittura di stile è la sua. In questo senso è il portato di una memoria culturale che la tiene fuori dall’edonismo smemorato della gestualità e la immette, nell’arco trentennale del suo prodursi, in un circuito di rimandi, un intreccio di rinvii di andata e ritorno, come una sorta di leonardesco Codice Atlantico. L’artista diventa il grande sedentario, di chi corre lungo la tangenza di molti climi culturali e di molte derive stilistiche ma da fermo: «io, poltrone europeo», come dice lui stesso… Grande sedentario dell’arte, Festa adopera le mani e la testa per realizzare opere che restano sempre nel campo della pittura, dell’apparire di un’immagine dentro la dignità laica della forma mai autobiografica e grondante soggettività, ma sempre disegnata in termini oggettivi e mentali, come si conviene ad un’opera a futura memoria, per far capitolare lo sguardo e per ricapitolare il già tutto dipinto. Uomo di storia, Festa crede di conseguenza all’arte come cimento culturale, capace di sfiorare molte temperature, calde e fredde, gelate ed espressive, ma tutte tenute sotto l’ombrello protettivo di una finezza di spirito che si identifica con quello dello stile… Essere sedentario, poltrone europeo, significa appunto essere consapevole del peso della storia dell’arte che affranca dal peso personale l’artista, lo trattiene fermo sulla propria ossessione creativa e ne trasforma l’impeto gestuale in una calligrafia ma senza perdita… I ritratti presentati da Festa racchiudono dentro di se la memoria stilistica di diverse identità, tutte rifondate a partire da una iconografia, dalla matrice di cultura nordica, per esempio quella di Munch, attraversata però da una luminosità mediterranea confluente nell’oceano atlantico della stesura cromatica dell’astrattismo americano. L’asimmetria dei tratti, l’apparizione fantasmatica della figura vengono accertate mediante un sistema formale che lenisce il primo strato di sofferenza della figura stessa. Una mano ferma si adopera a stendere il colore come una sorta di campo nitido, paesaggi dell’anima precisati fuori da ogni indeterminazione, come se la visione acquistasse maggiore nitidezza nel suo affiorare alla forma, sotto lo sguardo dell’artista e dello spettatore… Una profonda «pietas» regge l’intero arco dell’opera di Tano Festa che con molto stoicismo si presta a confermare e nello stesso tempo a esorcizzare il suo «buco nero». Lo fa con gli strumenti che gli son propri, quelli della pittura adatta a fondare un punto visibile di concentrazione ed anche di sviamento apparente dall’ossessione primaria, quella della solitudine e della morte. La galleria dei suoi ritratti ha una perentoria affermazione di ferocia, ineludibile rappresentazione dell’orgoglio della storia che si sfalda sotto i colpi del tempo. Le immagini sono sempre condensate dentro un campo visivo che rassomiglia molto ai teatri della natura medioevali dei films di Ingmar Bergman, dove esiste sempre una linea di orizzonte quale metafora visiva di un vivere finito, linea oltre la quale esiste soltanto la domanda e si afferma la scomparsa. Tale onesta rappresentazione conferma la condizione di «cattiva coscienza» di Festa artista dadaista che sa di non poter mai con la sua opera porre riparo alla profondità del «buco nero», ma soltanto mettere in scena l’investigazione sulla morte attraverso l’atto del vivere dell’arte. Da qui la sua perenne scontentezza. Se il nome è un destino, come diceva Savinio, quello di Festa designa l’identità di un artista che crede all’arte come durata mentale, come una Festa inscenata mediante la forma per ostentare l’orgoglio della Finita Creazione.
Francesco Gallo “Barocco Romano” 1987
testo di presentazione della mostra personale dell’artista al Tour Fromage, Aosta, 8 agosto 1987
“Da un sogno all’altro il labirinto cambia” Nietzsche
La pittura di Tano Festa, nella sua circolarità poetica, suggerisce una grande “architettura barocca”, dove si succedono, si affiancano motivi strutturali e motivi ornamentali, in maniera strettamente compositiva, tali da essere unicum inestricabile, dove essenza e fenomeno si confondono, si perdono in reciproca dissolvenza. Tutto questo avviene senza caduta di soggetto, senza caduta nell’indistinto, anzi con una valorizzazione materiale della soggettività e della distinzione che vengono dilatate, messe a fuoco, nella loro radicalità rispetto all’intero corpus dell’opera.
Un corpus, nella sua carnalità sacrificale e ludica, ampio tanto da abbracciare un registro formidabile di espressionismo torbido e un grafismo dal segno elementare, dai toni alti dell’espressività sanguigna a quelli bassi della descrittività architettonica, passando attraverso una scalarità trasognata, come preda di un’allusione alcolica e stupefacente. Una allucinazione senza scampo, eppure capace di commovente passione, testimonianza di uno spirito indomabile, anche quando schiacciato dal peso dell’essere infelice si sente attratto dal senso erotico della morte, dalla sua seducente felicità orgasmica. Così, Tano Festa vive una stagione di tornante estate, di calura, di afa esistenziale che induce ad assorbire quanti più umori possibili, da quelli freschi e chiari che scendono dal cielo, a quelli torbidi e acidi che esalano da fiumi fetidi di marciapiede.
Tano Festa, tra cielo e terra, come un sospeso, come uno sciamano impaziente, forse impazzito, ma preda di una saggezza che da sola desta diffidenza, desta preoccupata immoralità. In questa incerta, ma stabile, situazione, egli compone la sua trama d’arte, le sue irriferibili conversazioni con la pittura, con la resa visibile dei suoi sogni forzati, rubati ad un fluire che non smette mai, neanche quando le lunghe ore del giorno lo costringono ad una estenuante rincorsa del fantasma custode. Quel fantasma che non lo lascia mai, nella fantasia erratica, nell’invenzione contaminata dal ritratto e dalla citazione, che lo spinge a comportamenti di cardinale scompostezza. Nasce da questa lucreziana condizione di infelicità mortale e di ampollosità romana, la sua ribellione formale, la sua proiezione speculare nell’opera. Nasce e si espande come una macchia di sangue mista a fango, esprimendo ad un tempo una condizione d’estasi e una condizione di condanna, come se si trattasse di una mistura per dividerlo dalla vita, per dividere la sua opera da se stesso, come in una pronunciata provincia della memoria. Una memoria frammentaria, una morbosa affettuosità per l’inutile assenza dalla scena, una scena dove si dà l’ampolla del senno, l’ampolla del senso, e molti tendono la mano per afferrarla ma devono ritrarla delusi, dopo aver ghermito il vuoto. In ciò, Tano Festa si comporta da perfetto principe dell’inganno, realizzando, sotto le mentite spoglie del lacero mendico, un encomiabile gesto pantocrate, una caduta nel finto abisso, una maschera dietro a cui c’è un volto, tanto uguale da sfidare l’identità della maschera stessa. In questo senso la sua ammaliata condizione umana si sposa con la sua psicologia della forma, una psicologia senza centro gravitazionale, senza linee di espansione, con una immanenza gestuale drammatica, sofferta, condotta fino alla sua paradossale essenzialità. Una essenzialità blasfema, figlia di una indisposizione nei confronti delle cime abissali dell’ordinario, del ripetersi senza sogno, senza incubo. La pittura di Tano Festa è tutta una strategia dell’incontinenza, un’offesa alla vita ordinaria e alle sue ritualità senza veli, un’offesa totale in cui il soggetto è coinvolto, come l’attore è coinvolto, sulla scena, nella parte che recita, senza lasciare spazio all’impostura dell’ironia. Eppure qua e là trasuda una amara ironia, ma non sono solo momenti di caduta nell’infero scettico di se stesso, momento in cui l’artista s’accorge della sua pratica, della sua storica vocazione, e si sente perduto tra pareti templari considerate troppo sacre. Nel caso di Tano Festa si tratta di momenti amorali comici, subito risucchiati dalla vorticosa corrente della voluttuosità, sposata con un cupio dissolvi lento, senza fretta, cinico nella autodistruzione, così come lo è nella costruzione dell’alterità nomade, una alterità che risponde a molti nomi e molte chiamate, tante quante sono le volte che deve andare a quadro, perché un demone lo conduce, perché un bisogno lo stimola, perché una lusinga lo attrae. Tano Festa è un artista che mette in gioco se stesso più di quanto non metta in gioco la sua pittura, componendo così un dramma esistenziale a tutta compromissione, a tutta tragedia incipiente, mentre nella pittura rimane una traccia della stagione degli anni sessanta e settanta, quando regnavano secchi e senza gloria i miti caduti del consumismo e i miti rivoluzionari dell’utopia classica.
Tano Festa degli anni ottanta vive il ricordo delle sue stagioni primaverili, delle sue stagioni alla corte dell’edonismo dirompente, come un figliol prodigo che non è mai tornato alla casa del padre e non ha mai fruito della macellazione del vitello grasso. Così come non ha mai fruito di una seconda spartizione delle tuniche e delle vesti. Si accontenta degli abiti diventati laceri, a forza di fughe con falsi passaporti e di piedi inzuppati nella pozza del colore fluente, di tubetti appena cominciati e subito buttati via. Nei suoi anni ottanta c’è lo stile della riflessione, lo stile dell’equilibrio irritrovabile del genio. Perché non c’è dubbio che in lui c’è l’impronta del genio inventore, un genio che si è accorto di se stesso e si è spaventato, credendosi incapace di reggere il confronto con l’idea di se stesso, operata dall’aumento della memoria a scapito della novità; un aumento che è un grande magazzino dell’anima, che l’arricchisce di ornamenti, ma nello stesso tempo, la rende pesante.
Una memoria dilatata, appesantita, stanca, allo stesso modo del suo corpo, emblema visibile di un martirio che non finisce mai, continuato in tutto il tempo del tempo, in tutti i gesti dei gesti, intensi come ansimanti percorsi in salita, anabasi faticose fatte con la croce di se stesso, con la rigidezza di membra che si ribellano all’apologo famoso e vanno ad ingrossare le anse morte di un fiume stanco. Anse d’ombra che sono rifugio della disperazione, rifugio di tutta una vita spezzata dal timore di non essere abbastanza in un mondo che è troppo, in un mondo in cui l’eccesso nevrotico contagia le menti e le carni di uomini e donne. Tano Festa cede al mondo e con questo cedimento si conquista il diritto a trasformarlo sotto forma di immagini, sotto forma di icone traslate, dove tutto può essere realmente tutto, ma tutto può essere il contrario di tutto, consistendo ogni realtà in una pura virtualità d’invenzione. Il mondo di Tano Festa non esiste in sé, esiste in quanto la sua fantasia lo vuole per potersi esercitare, per verificare i luoghi della propria dannazione esistenziale, come se ci fosse una pena da scontare per la caduta nel male di vivere. In questo senso gli anni ottanta fanno da fronda per tutta una iperrealtà esaltata dalla ventata ideologica della perversione, della derisione, come una grande pars destruens per la nuova sacralità del blasfemo. Questa è in lui la festosa presenza di Roma, città dalle vesti lacere, dai capelli scarmigliati, dal volto imbellettato e sfatto, ma, per un quid inspiegabile, sempre in grado di fare innamorare, di produrre sconvolgimenti d’angoscia, quelli che quando vengono lasciano in astratti furori. Dalla presenza romana deriva anche la risorgente contaminazione del suo immaginario con le reliquie di una condizione di morte mai del tutto avvenuta e per questo sempre incombente al di là di ogni aspirazione d’eternità.
Tano Festa percorre strade e vicoli di questa condizione preminentemente mentale, con tutto l’affanno e la leggerezza che gli possono derivare dal non avere filtrato i materiali da portare con sé, d’averli presi così come sono, senza averli lavati dalle incrostazioni mitiche di cui sono intaccati. Con questi materiali Tano Festa recita la sua parte comica, quella della maschera che non si regola con i ritmi del cuore, ma si regola con i ritmi del vociare di Campo dei Fiori o col canto notturno di un pastore africano, imprigionato da tempo immemorabile nella casa di un Bartolo dagli amori singolari. Giorno e notte dell’avventura, della sventura di non poter recitare le odi barbare della colonna traiana, di non poterne seguire le evoluzioni esaltanti in direzione della volta del cielo. Tano Festa è come fitto col capo in giù, capovolto dalla sua stessa insularità psicologica che lo vuole solo in mezzo a tanti, solo nonostante tanti. Solo ad ascoltare se stesso, ad ascoltare le sirene di un pozzo largo, largo come un deserto, un deserto dalle tante dune, mobili, incostanti, ma con tante porte e finestre da cui far partire messaggi e messaggeri, a manifestazione del loro essere fori infernali del castello che tutto vede, tutto sente, a tutto pensa, senza essere visto, sentito, pensato. Un trivio che promuove le incertezze del poeta, che insinua la vanità del dubbio, ma dona le virtù dell’incanto, quelle virtù che permettono la nascita del nuovo visibile, di quel visibile che esiste solo nel quadro, anche quando è tratto da un pretesto ovvio e sconcertante. Tano Festa è un artista di totalità antropologica, nel senso che la sua pittura è governata da un forte senso del corpo e da un forte senso del fenomeno, materializzazioni che in questo decennio, ormai al tramonto, hanno riempito il vuoto e la sottigliezza della tela degli anni sessanta e settanta. Anni briosi per la sua biografia, intensi per scambi e viaggi, da tanti considerati il suo periodo aureo, anni in cui confrontava il suo pop-Michelangelo con il pop-coca cola degli americani, determinando una corsa al restringimento dell’Atlantico di parte europea, mentre da parte americana, e di Leo Castelli in particolare, si tendeva ad allargarlo e addirittura a trasformarlo in rapida o in cascata per una nuova conquista e ratto d’Europa. Dal vuoto al pieno, si potrebbe dire col gusto della semplificazione a tutti i costi, anche se poi occorre aggiungere che quel che sembrava vuoto non era del tutto vuoto, e quel che sembra pieno non è poi così pieno. La differenza che appare palese fra quegli anni e questi di Tano Festa, è l’attenuarsi del gusto fotografico, della sua predisposizione concettuale alla copia maculata. Si tratta della dilatazione del rapporto di plagio con Michelangelo, della sua santa, inestinguibile, disposizione al furto, furto come unica forma di continuità possibile nell’arte.
Nel suo carosello immaginario, Tano Festa vede una disfida continua di artisti che si rubano, l’uno con l’altro, i segreti le forme,così di padre in figlio, di generazione in generazione. Il che è perfettamente in tono con la sua tenuta cagliostra, con il suo essere altalenante dal convivio con gli dei a base di nettare, servito da Ganimede, al bagordo di bordello con umanità perduta, a base di vinaccio, servito da un oste guercio. Per astra ed aspera,senza mai stancarsi dall’esser precipitato giù, dall’essere osservato con misericordia dai puri di cuore; avvezzo ai panni sfarzosi del Rosso Fiorentino, come quelli laceri del Pontormo, senza avvertirne alcuna differenza. Ma, a pensarci bene, cosa può essere l’attualità per un artista come Tano Festa, per un sognatore sempre proiettato nelle lateralità dell’universo immaginario? La sua è una attualità di tipo formale, con un hic et nunc, subito selvatico, subito inquinato da scarichi immondi dell’incubo, da ruggini deturpanti di ogni splendore. Si comprende, da tutta una tortuosa vicenda di specchi e di rimandi il suo debito nei confronti di de Chirico, e dell’arte classica, de Chirico inteso come lente trasversale per leggere la stessa coloristica di Michelangelo e tutto l’insieme barocco di Roma, senza per questo perdere del tutto il senso comune, quel senso che fa riconoscere persone e luoghi che, chiamati, rispondono.
In parola fuori di metafora, si tratta del problema dell’oggettività, dell’oggettività dell’opera, l’unica oggettività che attraversa la vita di Tano Festa, mentre tutto il resto è intermittenza, benedetta intermittenza che gli permette di non essere preda del deserto borgesiano e, quindi, morire ad ogni luce e ad ogni illusione. Tano Festa somiglia a Caravaggio, un Caravaggio del tempo senza avventura che noi viviamo, con la scomparsa dei sicari, e delle vere persecuzioni, così come della selva e dei cavalieri in cui rifugiarsi. Per Tano Festa la selva sono i vicoli di Roma e l’isola dei cavalieri non è la mitica Malta, ma un residence anonimo e perbene. Eppure è riuscito, come un personaggio di Bukovski a ritagliarsi una vita speciale, errabonda, con un suo paradiso artificiale, dove nessuno può entrare perché è in nessun luogo, nei meandri del suo cervello, nei percorsi incredibili del viaggio,del desiderio di annullamento, di dispersione che il viaggio connota al di là di ogni psicanalitica e riduttiva spiegazione a sfondo sessuale e orgasmico. Si configura come vera dispersione nel nulla o come implosione verso il ventre della madre, verso il regno liquido in cui sono elisi tutti i rumori e tutte le turbazioni e si intraprende un nuoto in archetipo, lo stesso nuoto che ha preceduto la recente e insicura nascita dell’uomo. È significativo che negli anni ottanta cominci, con i Miraggi, una serie di opere sull’illusione dell’essere e del non essere, resi con una pittura piatta, con un minimo di spessore, appena sufficiente a fornire l’impianto scenico della prospettiva. Si tratta di composizioni fortemente stranianti, con una presenza di enigmaticità soffusa, tipica dei momenti di passaggio, momenti in cui si sente la discontinuità con qualcuno e qualche cosa e si fonde una nuova tradizione. Nasce una nuova professionalità dell’artista, slegata dalla dialettica concettualistica e direttamente collegata ad una nuova ripresa della manualità. Manualità tanto esaltata nel panegirico delle parole e tanto sprezzata nel residuo di una cultura fondata sul primato dell’oralità. Non si deve, però, pensare ad un Tano Festa vittima dell’assoluta coerenza, tanto è vero, che, nello stesso tempo, fa i quadri con coriandoli, un’allegoria delle quattro stagioni, fatta con manciate di puntine multicolori su fondi azzurri densi di materia pittorica.
Ma non bisogna farsi fuorviare o ingannare, Tano Festa utilizza i coriandoli in funzione di alleggerimento, come Shakespeare utilizza l’ubriaco per tagliare la tensione dell’opera drammatica. Tanto è vero che se li porta dietro per altri cinque anni, come una sorta di uscita di sicurezza rispetto al modello culturale della pittoricità pura. E non si può dire che la ripetizione o la replica, che si voglia dire, giuochino a stancare il ritmo delle composizioni, che si giovano sempre della sua freschezza e della sua infantilità d’artista, vero e proprio elogio della marginalità rispetto all’ombra di quadri totali, dove non c’è confronto di frontiera tra plasticità illusiva e illusione plastica, ma è tutta un’illusione. Dai Miraggi emergono deserti dalla caratura simbolista nel senso di piccoli frammenti corporei dell’allegoria passata irrimediabilmente sotto il grave giudizio della sera e inoltrata nella notte dell’impossibile narrazione. Narrazione tanto più impossibile quanto più le insegne della filosofia sono state inchinate fino a toccare la polvere dell’esistenzialismo che sempre segue le stagioni del grande impegno, stagioni in cui ogni uno gioca ad essere ogni altro.
Seguono i Cardinali, figure emblematiche di una curialità rovesciata, ripresa dall’ironicità di uno Scipione o di una scuola romana impastata con gli umori filtrati di Bacon, ma anche con la gestualità di un Franz Kline, di un De Kooning, di un Pollock, o addirittura di un Matta.
Tutti riferimenti che Tano Festa non ha difficoltà ad ammettere, e che, anzi, rivendica come suoi compagni di secolo. Con i Cardinali il segno ed il colore si fanno più impetuosi, pastosi, come l’effetto di un turbine che avvolge le sembianze di qualche cosa di forte, e non importa se questo qualche cosa è un effetto d’amore o di ripulsa. Comunque si susseguono ritratti a ritratti, pretesti per affrontare la corporeità, la fisicità, l’amore, una ossessione senza riparo nella ricostruzione dei frammenti dell’armonia nascosta. Lo aiuta in questo una ispirazione platonica allo svelamento, svelamento come ritorno alla memoria ad un evento già conosciuto, già catalogato negli scaffali della camera fantastica. I Cardinali sono i fantasmi della cultura che si è intrecciata ecletticamente con tutte le culture passate e presenti, traendone sempre linfa di vitalità, di certezza nel proprio trionfo; essi sono sotto specie corporale ciò che Piazza del Popolo è sotto specie architettonica e morale, la visualizzazione vivente di luce ed ombra, di geometria teologica e di geometria costruttiva. I Cardinali sono la corda del cielo, una corda da cui si può salire alle stelle, come uno sciamano ispirato o un Apollonio invasato, oppure si può restare impiccati in disperato suicidio della non speranza. Piazza del Popolo, hortus conclusus dell’impossibile, paradiso turrito della dannazione, avvolge, nella sua sfida permanente alla mobilità, tutte le contraddizioni della caduta del cielo sulla terra, dello schiacciamento senza pietà di ogni gemito o implorazione.
Essa rappresenta anche, nei tavoli del Caffè Rosati, una improbabile scuola di pittura, una raccolta di artisti, in primis Schifano e Angeli, compagni di vita che hanno preso ciascuno una propria strada, ma che non riescono a negare gli esercizi di stile fatti insieme a Tano Festa, anche se tanti altri esercizi, hanno fatto successivamente. E così anche con gli altri, con Giosetta Fioroni, Mambor, Tacchi e Lombardo, con vivi e con morti.
Continuano le file interminabili di ritratti veri e immaginari, più qualche autoritratto. Ritratti di donne, di donnine, le celebri donnine che accendono il suo umore, e che rappresentano il corpo per eccellenza. Il corpo che per lui è essenzialmente un corpo femminile nudo, anche se nella sua pittura non c’è mai, forse per incapacità nello stabilire con esso un distacco di serenità, il distacco necessario per trasferirlo dal capriccio dei sensi, dalla calda eccitazione, al capriccio della tela, alla fredda descrizione. E poi, per lui, il nudo è una specie di gioco body, in cui si sente proiettato in prima persona, una auto-presentazione da ecce homo senza stimmate divine, anzi con forti impronte di corruzione, di lacerata sofferenza. I ritratti di personaggi storici sono trattati con la stessa familiarità degli altri, senza etichetta, puri pretesti per fare un quadro, puri pretesti per esercitare la mano su colori e su tela. Eppure poi viste in gallerie di volti acquistano il senso delle cose rimosse, dei sogni di gloria e delle passioni giovanili, quando non infantili, che non hanno mai voluto abbandonare la scena, emergendo come fantasmi muti nei momenti di stanchezza. Nei momenti di rimpianto per un tempo che non è il proprio, ma che si sarebbe voluto conoscere, sentirne le voci, vederne i volti, scrutarne gli amori furtivi e fuggitivi. C’è in questi corpi, corpi di misteriosa inconsistenza e di ardua identità (che solo la didascalia permette di individuare) una trasfigurazione omologante, in cui la differenza opera con tratti marginali e quindi difficilmente rilevabile.
Come a dire che sono tutti autoritratti di un androgino creativo in cui la sessualità è completamente sublimata, anche se non repressa, libera di immaginare paradisi perduti, eden di periferia rispetto ad ogni centralità metropolitana; forse in eccentricità perfetta rispetto al suo essere abitante della città caput mundi per questo stesso responsabile di una visione dove il panneggio di Raffaello si specchia nel nudo di Michelangelo, come il pieno lo fa nel vuoto, accettando di bere totalmente nel calice della complementarità, rifugio di ogni incontinenza e di ogni perversità mascherata e mentita.
La pittura di Tano Festa segue le sue spinte umorali, fino in fondo, non ha una rete di protezione che la separi da lui, almeno nel momento del concepimento, per cui essa può apparire un frutto di distrazione; un ineguale giardino, un po’ all’italiana e un po’ all’inglese. Un’apparenza veritiera anche se mascherata da inganno grossolano, una conseguenza da non trascurare nella produzione vasta del suo campo, per cui si impone la scelta con cura, e dalla scelta con cura emerge con vigore, figura tra le più significative dell’arte contemporanea italiana e non già una figura tra le tante.
A Tano Festa si deve un’attenzione particolare, un’osservazione non frettolosa se si vuole rilevare quanto di importante è emerso ed emerge dalla sua realtà, che ho definito lucreziana per lanciare un ponte tra il poeta del De rerum natura, descrittore dei miti caduti dell’antica Roma, e questo affannato cantore di miti d’oggi, miti del disfacimento e dell’irriconoscibilità. Tanto che nel suo desiderio c’è l’abbandono di quest’aura, e la ricerca di un esilio dal turbamento continuo, in cerca di un riposo, forse più letterario che reale, perché non vedo per niente Tano Festa fuori da questo mondo, fuori da queste secrezioni ambientali. Tano Festa è condizionato dall’ambiente in cui vive ma ne è anche esaltato, perché da questo trae la sua appropriazione culturale, la sua linfa seducente, ma anche pericolosamente sirenica. È un condizionamento che vale un genius loci, un segno inequivocabile di personalità diversa, ma appunto per questo interessante. Interessante perché capace di recuperare il messaggio dell’arte come mezzo espressivo della frammentazione, come mezzo espressivo nella querelle ambigua tra spirito dionisiaco e spirito apollineo; ambigua perché entrambi toccati dal morbo della decadenza, un morbo appropriato allo spirito barocco, filtrato dalla nostra romanticità, più che ad ogni altro. Perché lo spirito barocco è brillio dei sepolcri, la festa con la luce rossastra che avvampa i volti del ballo, dei partecipanti al ballo dell’allegro e triste commiato. Tano Festa ha trovato, via via, le motivazioni di una pittura non ideologica, quindi, totale. E in questo modo l’ha praticata senza porsi troppe questioni concettuali, superando così tutte le preclusioni ideologiche del suo periodo pop. Una pratica artistica associata alla costruzione di uno stile di vita o forse ad un antistile di vita, al lasciarsi passare addosso il tempo. Perché è proprio questo che lo smuove alla poesia dei gesti quotidiani, all’affermazione del primato della fisicità della donna, un’affermazione provocatoria per un artista che non dipinge mai nudi di donna, ma avvolge sempre i corpi in un panneggio scomposto privo di reali connotazioni di verisimiglianza. Connotazioni che non sono mai state al centro della pittura di Tano Festa che si è alternata dalla minimale sagoma ottenuta come da uno stampiglio, alla massimale convulsione della gestualità espressionistica. Sempre, però, si tratta di una pittoricità calda nei toni, anche quando non c’è l’intenzione di fare della tela un luogo di amalgama, ma di separazione o di meccanica giustapposizione di cose a cose. Come lo era nei paesaggi degli anni settanta, con stesure di assoluta orizzontalità, a pannelli, con una pittura che non è travagliata, stratificata, ma si presenta alla prima, senza spessore materico, solo pellicolare, una pellicolarità che oggi si fa leggere con irritazione. L’irritazione che viene dal senso cartellonistico con cui si trova in concorrenza, anche se orgogliosa della propria splendida inutilità. E giù ancora allo Specchio del 1963, alla Milano del 1962 e alla Persiana rossa dello stesso anno, per ribaltarsi nello Studio per la strage del 1959 in un informale che dal punto di vista materico somiglia alla pittura di questi anni. Gli anni cinquanta come gli anni ottanta? In un certo qual modo, sì. Ci sono molte analogie tra i due decenni post, il primo post della cultura stracarica di sensi morali da soffocare il respiro dell’arte, il secondo post,della pittura comportamentale e dell’arte laminare. In epilogo, voglio soffermarmi sul suo disarmante sogno della pittura, un sogno fatto di conquiste fragili, di nuovi documenti dell’immagine istantanea, di incapacità a far coincidere il momento del black box della mente con la scatola prospettica della vista. Si trova sempre tra Joyce e Génet da un lato e Lawrence dall’altro, sbattuto tra una Scilla vogliosa di carpirgli tutti i segreti della mente, quelli che neanche lui sa di avere, e una Cariddi che lo vuole consegnare all’oblio finale, quello che non si lascia intimidire da urla e imprecazioni, perché è pronto al sacrificio pur di lasciare una traccia di se stesso. Per Tano Festa la pittura è una traccia, una testimonianza da affidare ad altri, da donare agli altri, affinché con il suo linguaggio senza suono e senza articolazione labiale sappia fare il resoconto dal parnaso. Narrando, narrando si sente, però, incipiente, la confusione delle parole, della grammatica e della sintassi, verso una via Appia dove non passa più nessuno per paura di turbare il fosso ai fantasmi, sempre più scacciati dal logos oltre che dal topos e confinati nell’armadio d’ingresso con gli abiti smessi per sempre.
Che poi altro non sono che gli abiti dell’attualità trasformata in anacronismo inattuale, in sostanziale adesione ad un atto che non è totalmente di questo mondo, ma è medianico di una trasversale sintonia tra senso comune e follia. Una sintonia che genera l’arte come l’assenza genera i frammenti di un discorso amoroso e quindi la sfuggenza, l’incomprensione dell’oggetto allo stesso soggetto artefice. Una incomprensione magica che libera l’artista da ogni pudore e gli fa riversare nell’opera tutta la carica emozionale di cui è capace, senza alcun freno inibitorio che non provenga dal fatto pittorico stesso, dal suo essere alterità compiuta. Anche se poi a compierla è, anche lui, un coro di ateniesi, diversi dai parigini e dagli ottentotti, coro che subisce il passare degli anni, il variare delle stagioni, il cambiamento dell’intensità della luce nelle ore del giorno. Un coro pronto al pianto ed alla gioia, obbediente alla smorfia decretata dalla maschera.
Achille Bonito Oliva “Descrizione di Festa da artista” 1988
Testo nel catalogo della mostra antologica “Tano Festa” agli stabilimenti Ex Peroni, Roma, 13 marzo 1988. Edizioni Electa pp.11/17.
“Peccato che la natura abbia fatto di te soltanto un uomo, perché c’era la stoffa per fare di te una persona di valore ed anche un mascalzone” (Goethe). Nella pratica creativa l’artista sfiora sempre il valore e la trasgressione, la fondazione della forma e lo sfondamento di un codice che non è mai soltanto linguistico ma implica costantemente il campo dell’etica, le norme del vivere e del sapere.
ll poeta tedesco sicuramente avrebbe riconosciuto in Tano Festa entrambe le possibilità, praticate in maniera delicata sul piano dell’opera e quasi letteraria per quanto riguarda il modo di vita, consapevole e dimentico di sé, laterale e corposo, ironico e afasico. Tutte queste aggettivazioni caricano la storia di T ano Festa di complessità e rinviano a un’opera che a sua volta è stata sempre tenuta dall’artista sotto il segno dello stile. Pittura di stile è la sua.
In questo senso è il portato di una memoria culturale che la tiene fuori dall’edonismo smemorato della gestualità e la immette, nell’arco trentennale del suo prodursi, in un circuito di rimandi, in un intreccio di rinvii di andata e ritorno, come una sorta di leonardesco Codice Atlantico.
L’artista diventa il grande sedentario, che corre lungo la tangenza di molti climi culturali e di molte derive stilistiche ma da fermo: “io poltrone europeo”, come dice lui stesso. La pittura diventa l’epicentro di tante collisioni che si addensano sulla superficie splendente dell’opera dura e tersa, come deve essere una fonte speculare capace di catturare, trattenere ed elaborare il portato di un linguaggio slittante storicamente in una temporalità non circoscritta all’arte europea ma aperta, lungo la rotta dell’oceano Atlantico, agli influssi dell’astrattismo americano, agli smalti artificiali cromatici di un gusto non certamente ingenuo, quello appunto di un’America che ricorda la sorgente europea della propria ispirazione.
Grande sedentario dell’arte, Festa adopera le mani e la testa per realizzare opere che restano sempre nel campo della pittura, dell’apparire di un’immagine dentro la dignità laica della forma, mai autobiografica e grondante soggettività, ma sempre disegnata in termini oggettivi e mentali come si conviene a un’opera a futura memoria, per far capitolare lo sguardo e per ricapitolare il già tutto dipinto.
Uomo di storia, Festa crede di conseguenza all’arte come cimento culturale, capace di sfiorare molte temperature, calde e fredde, gelate ed espressive, ma tutte tenute sotto l’ombrello protettivo di una finezza di spirito che si identifica con quella dello stile.
Come un Matisse degli anni Sessanta, egli è portatore di uno stile di superficie, non senza profondità e consapevole della necessità di apparire e affiorare all’evidenza della forma in maniera pulita. Festa è artista “cattolico, apostolico, romano”, crede nell’iconografia figurativa, alla rappresentazione come momento di fondazione di uno stile, di un comportamento in questo caso temperato dal senso della storia, dal peso consapevole di immagini mitiche dell’arte, che portano l’artista all’umiltà di una leggerezza espressiva. Segno di grande gravità morale, della necessità di una misura in fondo dialogante fuori dalla superbia di chi pensa di poter cancellare il mondo, l’universo iconografico dell’arte occidentale, col proprio segno.
Essere sedentario, poltrone europeo, significa appunto essere consapevole del peso della storia dell’arte che affranca dal peso personale l’artista, lo trattiene fermo sulla propria ossessione creativa e ne trasforma l’impeto gestuale in una calligrafia ma senza perdita. Non subire perdite conferma l’identità dell’artista, che conserva il proprio impeto visionario, la tensione carica di fantasmi che aleggia sopra la sua dimora di poltrone, di chi gioca da fermo, anche con la memoria, la sua avventura creativa.
I ritratti presentati da Festa racchiudono dentro di sé la memoria stilistica di diverse identità, tutte rifondate a partire da un’iconografia, dalla matrice di cultura nordica, ad esempio quella di Munch, attraversata però da una luminosità mediterranea confluente nell’oceano Atlantico della stesura cromatica dell’astrattismo americano.
L’asimmetria dei tratti, l’apparizione fantasmatica della figura vengono accertate mediante un sistema formale che lenisce il primo strato di sofferenza della figura stessa. Una mano ferma si adopera a stendere il colore come una sorta di campo nitido, paesaggi dell’anima precisati fuori da ogni indeterminazione, come se la visione acquistasse maggiore nitidezza nel suo affiorare alla forma, sotto lo sguardo dell’artista e dello spettatore.
Il destino dell’artista è quello di diventare anch’egli spettatore della propria ossessione formalizzata. In questo Festa è artista europeo, artista di memoria culturale, di chi comprende il percorso di andata e ritorno della cultura e degli stili stessi. Egli dunque parte da un afflato visionario che affonda anche nel simbolismo e nella metafisica, ma poi attacca la sua mano di pittore agli esiti espressivi dell’area americana che corre da Barnett Neuman a Kelly, fatta da superfici levigate e compatte, di colori neutralizzati da ogni profondità psicologica ma densi di spiritualità.
“Tutto quello che appare o che vediamo “È solo un sogno dentro un sogno” (Edgar Allan Poe). Festa in questo senso è un artista che non sembra lontano dall’asserzione di Calderon de la Barca che “la vita è un sueño”. Nel nostro caso, nella nostra epoca, la vita di un artista è anche un lungo sogno costellato dalle ombre degli altri artisti che hanno già attraversato le epoche della storia dell’arte, lasciandoci tracce ineliminabili che necessariamente invadono anche il sogno esistenziale dell’artista contemporaneo.
Perciò Festa è partecipe e spettatore nello stesso tempo delle proprie immagini, per questo egli è contemporaneamente “in mezzo al ruggito / D’una spiaggia tormentata di spuma”, di cui parla Poe nella sua poesia Un sogno dentro un sogno, e sul placido luogo dell’approdo formale che lo porta a una calligrafia ferma e placata, in tal modo oggettiva.
Una sorta di nostalgia di ordine perduto aleggia anche in questa pittura, un’eco che corre dai manichini metafisici di Carrà e de Chirico e porta fino a Schlemmer. Ma poi l’artista sa che esiste un necessario disordine e arriva ad altri esiti espressivi più neri e rannuvolati, come apparizioni di sogni contrastati. “Che ne sarebbe di noi, povera gente, se non potessimo diffondere idee come quelle di paese, amore, arte e religione con le quali coprire più volte quell’oscuro buco nero. Questa solitudine sconfinata ed eterna. Essendo soli” (Max Beckmann, “Briefe im Kriege”).
Una profonda pietas regge l’intero arco dell’opera di Tano Festa che con molto stoicismo si presta a confermare e nello stesso tempo a esorcizzare il suo “buco nero”. Lo fa con gli strumenti che gli son propri, quelli della pittura adatta a fondare un punto visibile di concentrazione e anche di sviamento apparente dall’ossessione primaria, quella della solitudine e della morte.
La galleria dei suoi ritratti ha una perentoria affermazione di ferocia, ineludibile rappresentazione dell’orgoglio della storia che si sfalda sotto i colpi del tempo. Le immagini sono sempre condensate dentro un campo visivo che assomiglia molto ai teatri della natura medioevali dei film di Ingmar Bergman, dove esiste sempre una linea di orizzonte quale metafora visiva di un vivere finito, linea oltre la quale esiste soltanto la domanda e si afferma la scomparsa.
Tale onesta rappresentazione conferma la condizione di “cattiva coscienza” di Festa artista dadaista, che sa di non poter mai con la sua opera porre riparo alla profondità del “buco nero”, ma soltanto mettere in scena l’investigazione sulla morte attraverso l’atto del vivere dell’arte. Da qui la sua perenne scontentezza. Se il nome è un destino, come diceva Savinio, quello di Festa designa l’identità di un artista che crede all’arte come durata mentale, come una Festa inscenata mediante la forma per ostentare l’orgoglio della Finita Creazione.
L’opera: oggetti a misura d’oggetto
Per chi, come Festa, ha un senso grande della vita, gli oggetti quotidiani producono dispetto, sospetto e inquietudine. L’oggetto quotidiano, nella sua quieta e ottusa immobilità, sembra possedere una sorta di resistenza imperitura nei confronti delle vicissitudini del tempo che tutto modifica e distrugge. Acquattato nella sua inerte funzionalità, esso sembra possedere quel carattere d’immortalità paradossale che l’umiltà della sua apparenza non potrebbe garantire. L’oggetto quotidiano diventa attrezzo di uno scenario pubblico o di un teatro a camera entro cui l’uomo realizza la propria peripezia esistenziale. Punto di ancoraggio visivo e tattile della sua gestualità, elemento di perimetro di ogni azione e di ogni distruzione. Nella sua ottusa impenetrabilità, l’oggetto garantisce nello stesso tempo discrezione e testimonianza. Discrezione in quanto intercambiabile e passibile di passaggio di mano in mano. Testimonianza in quanto opaca superficie capace di registrare l’uso che l’uomo ne fa, oggetto amato e odiato.
Tano Festa coglie la persistente inquietudine provocata dall’oggetto quotidiano, e lo immette nel campo dell’arte mediante la sua assunzione radicale al posto dell’elaborazione di altri materiali manipolabili. Porte, finestre, persiane, armadi, specchi, pianoforti e obelischi diventano soggetti di un’operazione artistica che li assume attraverso il procedimento della natura morta.
Di tale procedimento l’artista adotta il prelievo e il distacco dalla rete di relazioni funzionali che l’oggetto aveva col suo ambiente circostante. Ecco che ora l’oggetto quotidiano assume una valenza protagonista, decontestualizzato dal suo precedente insieme, sottoposto a una funzione contemplativa e non più d’uso.
La differenza col Readymade di Duchamp consiste nel fatto che Festa utilizza un atteggiamento di prelievo dell’oggetto in quanto immagine standardizzata, ma poi con un atteggiamento volutamente artigianale costruisce o fa costruire porte, finestre, persiane, armadi, specchi, pianoforti e obelischi.
Ovviamente questi oggetti, d’uso quotidiano o monumentale, fanno parte del paesaggio familiare dell’artista, attrezzi di un vissuto che lo accompagnano nella sua peripezia esistenziale col loro alto tasso di statica inquietudine, provocata da una stasi duratura capace di produrre una loro lunga vita, direttamente proporzionale a un’inerzia che ne elimina ogni dispendio d’energia e ne aumenta la capacità di resistenza.
L’artista interviene su tali oggetti con mano quieta e gesti standardizzati di pittura, in maniera da amplificarne la forza statica, seppure impregnata di una stesura cromatica che ne esalta la presenza. Perché è la presenza, diversamente motivata, che Festa vuole celebrare dell’oggetto. Presenza malignamente neutrale e per questo metafisica, giocata sull’assenza dell’immagine. Oggetti a misura d’oggetto, l’opera acquista la fenomenologia dell’evidenza, in quanto corrispondente a questa equazione, capace di rispettare e nello stesso tempo di segnalare la forte inquietudine del manufatto che perde ogni inerzia dettata dall’uso. Il potere di contemplazione viene esaltato dal potere di osservazione allucinato e oggettivo dell’artista, che fomenta la propria attenzione verso il mondo esterno mediante un tasso di umiltà che l’uomo normale non sembra possedere verso l’oggetto quotidiano.
Tale umiltà è direttamente proporzionale alla decisione dell’artista di non rappresentare forme antropomorfiche, ma la forza assoluta e inerte dell’oggetto, la sua statica e materiale consistenza.
La ricostruzione dell’oggetto è la prova di come Festa vuole presentare la sua capacità fantasmatica e non certamente la memoria d’uso derivabile dalla sua semplice assunzione nel campo dell’arte. Qui “l’école du regard” non funziona nella direzione dell’esaltazione soggettiva, nell’arrovellamento di uno sguardo affettivo su oggetti che, seppure separati tra loro, costituiscono e costruiscono un diverso paesaggio della memoria esaltante il soggetto.
Qui l’oggetto è costruito a misura d’oggetto proprio in quanto sembra sorgere sotto l’attento tiro della contemplazione senza un vero é proprio passato, con i caratteri di una epifania capace d’introdurre con estremo distacco nuove presenze.
Eppure tali presenze hanno la costante di produrre e di prodursi come immagini di sbarramento e di confine. Lo sguardo non può superare la soglia visibile dell’oggetto, deve fermarsi di fronte alla consistente materialità dell’oggetto, pelle durevole e duratura che condensa nella propria conformazione bidimensionale ogni possibile spessore.
L’oggetto artistico funziona da perimetro, da inquadratura e da schermo. Gli studi di fotografia fatti da Tano Festa determinano in tale produzione la necessità della delimitazione e di una cornice che segna i confini di un’immagine assente, in cui l’assenza è compensata dall’evidente presenza dell’oggetto. Della fotografia l’artista recupera la necessità di uno sguardo fermo che interferisce tra l’occhio fisiologico e il mondo esterno.
La fotografia arma Festa di un’ottica del distacco che ne potenzia lo sguardo trepidante e gli permette di riconoscere il mondo inquietante per quello che è: porte, finestre, persiane, armadi, specchi, pianoforti, obelischi e le bande cromatiche di Albinoni che ci restituiscono l’essenza della musica.
L’opera: arte con l’arte
Festa identifica l’oggetto con lo schermo e la superficie della pittura. Egli inscrive come un titolo di un film “Le stanze del Vaticano” negli spazi scanditi di una sua porta-oggetto. La scritta non proviene naturalmente da dietro lo schermo, ma come se fosse proiettata sulla consistente superficie, a testimonianza della capacità dell’oggetto d’arte a conservare su di sé le possibili proiezioni dell’esterno, esistenziale e culturale.
Così comincia il lungo dialogo dell’artista con Michelangelo, con le immagini della Cappella Sistina, che costituiscono uno dei retroterra dell’arte e dell’arte italiana in particolare. Festa, artista italiano ed europeo, sa bene come l’iconografia di Michelangelo è quotidiana e familiare nello stesso tempo per un artista romano. Un bagaglio di immagini stratificato, anche nella percezione comune, in quanto deposito non più separato dal commercio con la città di Roma e con la sua storia vaticana.
Ecco che allora alcuni dettagli della Cappella Sistina diventano fotogrammi pittorici del film creativo di Tano Festa, il quale inscrive l’iconografia del passato con la stessa confidenza cordiale con la quale guardava le immagini degli oggetti quotidiani da assumere nel suo artigianato creativo.
L’ottica armata del distacco evita all’artista ogni possibile identificazione e impossibile regressione verso Michelangelo. Questi infatti non viene assunto come modello, oggetto d’uso artistico, ma piuttosto come oggetto di prosa quotidiana, materiale d’accompagnamento nella vita di tutti i giorni, seppure non esposto con la frequenza cartellonistica della Coca-Cola.
Fare l’arte con l’arte è il dettato della semplice constatazione e del riconoscimento di un passato da cui l’artista proviene. Ma il passato significa anche riconoscimento di una distanza e della presenza della storia. Festa sa bene come sia impossibile superare di slancio la distanza e come la storia non sia un impaccio ma piuttosto l’esito di un tracciato e di un percorso capace di armare il procedimento creativo con strumenti di dialogo.
La fotografia e la conquista bidimensionale dello spazio pittorico diventano strumenti di consapevolezza e di uso, che fondano un linguaggio differente.
Gli echi della Cappella Sistina si smorzano felicemente sugli schermi pittorici di Festa, che ravvivano l’impiego di una iconografia classica mediante la pratica della citazione. L’artista non vuole emulare nella tecnica gli antichi maestri, Michelangelo, Van Eyck o Ingres. Egli ne riconosce la distanza e ne amplifica il distacco attraverso l’iscrizione iconografica nei fotogrammi della sua pittura.
Se la luce è un valore evidenziato dall’arte, la fotografia ne ha potenziato l’apparizione mediante una raffigurazione che ha toccato anche punti di astrazione. Allora Festa mette in rilievo il suo bagliore puntinato, mediante una sua rappresentazione amplificata. Egli accompagna l’immagine citata col commento visivo di punti dipinti come dei colpi geometrici sparati sulla superficie.
Un modo di amplificare l’ottica dell’interferenza fotografica e di rappresentarla come un’ulteriore protesi dell’occhio fotografico che porta con sé il ricordo dell’immagine contemplata e forse anche l’unico modo di conservarla a futura memoria. Anche attraverso le immagini cifrate del rebus. Ovviamente la futura memoria dell’arte è possibile, soltanto realizzando altra arte. E quello che fa Tano Festa quando utilizza iconografie del passato per immetterle in un corto circuito col presente. Il corto circuito si realizza mediante la creazione di un nuovo linguaggio.
Festa lo realizza attraverso la coscienza ideologica della tecnica, consapevolezza della storia che filtra nei procedimenti dell’arte mediante le acquisizioni del suo sviluppo. Qui lo sviluppo è rappresentato proprio dai riferimenti all’ottica fotografica e alla sensibilità che ne consegue che utilizza il gusto dell’inquadratura, lo sguardo che seziona l’intero e affonda sul particolare e l’apparente capriccio della neutralità.
La neutralità è apparente, in quanto l’ottica di ripresa di Festa passa sempre per una sorta di gusto monocromatico, per l’uso di colori leggeri che tendono a spostare lo spettro ampio del colore verso l’affermazione del grigio. L’artista vuole riaffermare la stessa sensibilità che lo portava di preferenza verso l’oggetto quotidiano, fatta come d’incontro fortuito e di frequentazione continua. Tali caratteri, infatti, sostenuti da un’ulteriore familiarità, evitano la caduta nell’impatto lirico, nella percezione trepidante del soggetto che si inferiorizza per sentimento rispetto all’immagine contemplata. Festa, attraverso l’immagine quasi monocromatica e non alterata, vuole ribadire il valore della consuetudine con la storia dell’arte e con la storia in generale, vuole riaffermare il senso di distaccata continuità con un passato che in ogni caso gli appartiene.
In questo senso il destino dell’artista è quello del pittore, capace di riprendere l’unica tradizione possibile, armato di nuovi e ulteriori procedimenti e da una sensibilità che gli permette di guardare oggetti quotidiani e iconografie del passato con lo sguardo distaccato della natura morta.
L’opera: quadri antenati
L’ottica della natura morta permette a Tano Festa di guardare alla storia dell’arte con rispetto ma senza trepidazione. Il rispetto gli permette di portare la sua attenzione verso quegli artisti che hanno prodotto sempre nuovi linguaggi. La mancanza di trepidazione gli consente sempre di constatare come i linguaggi prodotti dai grandi artisti del passato diventano stile, percorsi visivi percorribili anche fuori dalla temperatura creativa di chi li ha inizialmente prodotti. Ecco che allora esistono, più che gli antenati, i quadri antenati, quelle opere che testimoniano più di ogni biografia il linguaggio complesso di vite complesse. L’opera viene guardata dall’artista romano con lo stesso senso di contemplazione con la quale egli ha guardato gli oggetti quotidiani. In quanto sottratta al flusso esistenziale della biografia, l’opera possiede la tensione metafisica dell’oggetto inanimato, quella forza della natura morta che segnala la separazione dall’insieme vitale che costituisce sicuramente il paesaggio entro cui l’opera si è configurata.
De Chirico, Matisse, Munch, Bacon sono assunti anch’essi nell’opera di Festa non certamente come modelli d’identificazione, ma piuttosto come produttori di opere specifiche capaci di produrre epifanie.
Gli stili di questi artisti vengono ripercorsi nell’ottica di una neutralità pittorica che ne piega gli esiti a un senso della misura sempre presente nel lavoro di Festa. Egli ha dello spazio una misura aurea, nel senso che lo ritiene frutto di una costruzione.
Infatti le figure rappresentate, seppure desunte da differenti costruzioni, sono introdotte in un tessuto che sembra bloccarne ogni precarietà espressiva. In tal modo Festa non so quanto volontariamente, sembra voler combattere il senso della dissoluzione di cui queste figure sono portatrici.
Lo spazio diventa per l’artista il doppio luogo del percorrimento e del congelamento. Il percorrimento è dettato dal bisogno della ripresa stilistica. Il congelamento è il suo raffreddamento in una diversa temperatura dettata dal distacco storico e dalla sensibilità di artista tipicamente italiano che vuole testimoniare tutto col metro della misura.
La sensibilità neo-metafisica di Festa serve a portare l’opera nella direzione dell’ironia, intesa proprio come attività capace di creare distanziamento da ogni pulsione. La costruzione del nuovo spazio determina la possibilità di adoperare anche iconografie calde del passato, in direzione di un raffreddamento determinato anche dall’ottica cordiale con la quale l’artista le guarda, niente affatto complessato dalla riconosciuta e riconoscibile grandezza degli antenati.
Nel momento in cui gli antenati si sono trasformati in quadri antenati, si sono consegnati alla storia mediante la produzione di manufatti artistici divenuti anch’essi oggetti separati dall’autore, Festa parte da queste presenze mute per effettuare la sua nuova costruzione.
Questa serve a realizzare per continuità la sua poetica. Come inizialmente egli prelevava l’immagine degli oggetti d’uso e non questi in sé, così nell’ultima fase egli preleva non gli stili d’uso degli antenati, ma piuttosto l’immagine che se ne ricava. In tal modo si evita la nostalgia del puro prelievo, la tensione di una memoria identificantesi con un possibile modello, ma si afferma ancora una volta la stupefazione che un’opera d’arte, come l’oggetto quotidiano, possa produrre inquietudine per la sua capacità a lasciar sospettare nella sua inerzia concettuale il miracolo della durata.
Ecco allora la sfida di Tano Festa contro la dissoluzione del tempo: lo spazio contro il tempo. L’arte separata dalla vita, la contemplazione contro lo sguardo. Perché la contemplazione non è l’effetto di una pura constatazione visiva, ma piuttosto il potenziamento di una vista che si arma per dare durata all’oggetto.
Nel caso dell’arte, di Festa in particolare, la protesi adoperata è quella della costruzione di uno spazio che si fa schermo ed evento insieme. Un evento sospeso nel suo accadere e nello stesso tempo pronto a precipitare. Dell’opera dell’artista romano esiste come la minaccia visiva di un ulteriore evento possibile.
Nello stesso tempo esiste la serenità classica di una rappresentazione che tende a evidenziare l’artificio dell’immagine. E l’artificio sembra sgombrare il campo dalla paura del reale.
In Festa anche il cielo è meccanico, rappresentato nello snodo di pannelli che richiamano l’articolazione di una macchina visiva, che diventa essa stessa schermo convenzionale di cielo e nuvole insieme. La serenità della convenzione viene adoperata dall’artista anche nei quadri antenati dell’ultimo periodo, aiutato dalla consapevolezza del distacco storico delle opere dai loro autori e delle biografie di questi dalla sua biografia.
Il sofisticato artigianato creativo di Tano Festa è il portato di una complessa avventura esistenziale e creativa di un artista che ha saputo stare al gioco con la vita e con l’arte. Nella vita ha saputo praticare ogni incontinenza possibile senza voler conoscere l’economia del risparmio e, anzi, accentuando quella dello spreco.
Proprio per arrivare all’arte senza residui. Nella creazione egli, depurato da ogni contaminazione, ha risolto l’insensatezza dadaista dell’esistenza costruendo un’opera che vuole testimoniare la possibilità dell’arte di diventare il metro formale di una misura aurea di stare nella storia. Anche sostituendo i punti della luce con i buchi neri dei coriandoli e lanciandoli sulla tela.
Roma, luglio 1987 – febbraio 1988
Lorenza Trucchi “Il colore dell’ossessione” 1988
Era facile incontrare Tano Festa (Roma 1938-1988) tra Piazza del Popolo, Ripetta, Babuino.
Da anni il suo aspetto non lasciava sperare niente di buono e ogni volta, salutandolo o scambiando poche parole, mi restava dentro il senso melanconico di una ineluttabilità. Ma i grossi occhi da cane buono di Tano sorrisero fino all’ultimo. Ora, a meno di tre mesi dalla morte, il Comune, con l’apporto della Fintermica-Jacorossi, celebra il pittore con un’ampia retrospettiva curata da Achille Bonito Oliva. È alla fine degli anni Cinquanta che l’informale, perso il suo mordente di estrema avventura, si fa accademia. Ricordo che a viverla, quella stagione sovraccarica di abiure e di nuove proposte, procurava un certo malessere e, talvolta, anche un po’ di sospetto. Eppure, e lo si constata sempre più chiaramente, questo transito tumultuoso, disordinato, era necessario. Più che voltare pagina si trattava di uscire dalla stanca, dilagante moda della materia, del gesto. Operazione ben mirata da parte di alcuni giovani che proposero la soluzione del monocromo, non priva di tattica ambiguità, dato che da tempo Burri e Fontana avevano fatto quadri di un solo colore.
Tuttavia, sia in Manzoni che in Castellani, che furono tra, i primi ad opporre una “antipittura” alle degenerazioni pittoricistiche degli epigoni dell’informale, lo spirito era diverso.
Ai milanesi enucleati intorno alla rivista “Azimuth” corrispondevano i romani con cerchie diversificate. Così, ad esempio, in Lo Savio il discorso sulla monocromia era ancorato alla luce e allo spazio, non senza qualche tangenziale affinità con la poetica di Rothko.
Morto suicida nel 1963, Lo Savio lasciò un’eredità difficile, tra concettualità e progettualità. Un’eredità, comunque, non raccolta da suo fratello Tano la cui pittura monocroma, esperita sin dal 1960, si basava su un connubio fra dadaismo e costruttivismo. Rifacendosi a Duchamp, Festa copriva infatti di un rosso uniforme porte, finestre, pannelli di mobili (di preferenza ricostruiti) che contornava o spartiva con forme schematiche: strisce e grandi quadrati in nero e bianco.
Proprio con queste opere, datate dal 1960 al 1962, si apre ora la mostra dell’artista, scandita da Bonito Oliva in tre fasi successive, simmetricamente collocate in altrettanti capannoni dell’ex stabilimento Peroni. Ma Festa era più pittore di quel che agli inizi non volesse ammettere.
Ben presto il suo monocromo si sensibilizzò con trasparenze e patine allusive, tanto che recensendone la personale alla Tartaruga (1963) scrissi che aveva “sciacquato il costruttivismo nel Tevere” e i battenti dei suoi armadi “sarebbero persino piaciuti al romanissimo Scipione”. Sempre in quella recensione (ovviamente ora omessa) nella sciatta bibliografia del catalogo a proposito dei primi obelischi in legni verniciati concludevo: “Meno Mondrian e più De Chirico, sia pure rivisitato attraverso l’occhio barbaro e candido di Jasper Johns o di Jim Dine.”
Le precoci assonanze di Festa, di Schifano e di altri giovani artisti romani con la Pop Art (allora unica scuola veramente originale a cui guardare) sono note e ne sono noti i necessari distinguo: dal rifiuto della banalità ed elementarità della civiltà di massa in favore di reperti colti, alla diversa sensibilità pittorica. Di suo, di molto suo, Festa aggiungeva una nota ferma e alta, assai dissimile dal sapiente gorgheggio di Schifano. L’operazione del pittore in questo suo secondo e maggiore periodo (1963- 1977), è di stile, persino di civiltà. Festa è un europeo (“poltrone europeo”, si definiva in una illuminante lettera a Schwarz) con tutto quanto questo comporta di rigore, di misura, di inalienabile amore per la bellezza. Le sue limpide citazioni da Michelangelo, Ingres, Van Eyck, ne sono prova lampante. Ma quel che forse più interessa e intriga è il rapporto di estraneamento contemplativo che ha con le cose. Il mondo per Festa è uno scenario, composto non da figure reali ma da apparizioni. Più che oggettualizzare le immagini, egli ne coglie l’aspetto “spettrale e metafisico”, e uso di proposito due termini dechirichiani. Anche nell’ultima fase, dal 1984, quando la pittura si lega in maniera irrazionale alle drammatiche pulsioni dell’inconscio, echeggiate da un colore violento, le immagini (spesso si tratta ancora di prelievi museali ma frantumati, deformati) affiorano dallo schermo del dipinto come affannose apparizioni.
Un mondo dunque dolorosamente ossessivo, sebbene estraniato ed estraniante, da non confondersi con quello dissipato, ironico e sostanzialmente sano dei trasavanguardisti.
Articolo uscito su “il Giornale”, 21 marzo 1988, in occasione della mostra antologica all’ex stabilimento Peroni, promossa dal Comune di Roma e curata da Achille Bonito Oliva, inaugurata due mesi dopo la scomparsa dell’artista: il 13 marzo del 1988.
Renato Civello “L’affollata solitudine” 1991
giugno 1991
Una vita intensa e siglata dalla eccezionalità, il cui respiro è efficacemente scandito, in questo stesso volume monografico, da chi è più titolato a parlarne, ed una parallela inimitabile espressione d’arte, gloriosamente solitaria, direi, fra le troppo conclamate avventure e nel groviglio contraddittorio dell’estetica contemporanea, connotano la inquietante ricchissima personalità di Tano Festa. Nel corso di un trentennio, dalle prime esperienze giovanili alle partecipazioni di spicco alle Quadriennali romane, alle Biennali di Venezia e ad importanti rassegne fuori confine, si è trattato di una presenza emblematica, forte, anticonformista nel senso più elevato del termine, non disponibile, cioè alla usura della “regola”, capace di accogliere i fermenti più significativi della modernità senza per questo imprigionare o comprimere l’esaltante vitalismo del proprio temperamento. Presenza per molti versi scomoda, nella sua arcaica ma contestuale purezza, che ha suscitato confusione e disagio per i codificatori di turno. Il museo immaginario di Festa è il “topos” della sua alta spiritualità, alta dietro le spoglie apparenti dell’assuefazione, è il luogo non ancora sufficientemente esplorato di sensazioni non alienabili, né mutuate da eclettiche fonti.
Il museo non invetriato e serrato, diretto all’uomo di sempre di là delle indicazioni elitarie, sullo scorta concorde dell’intelletto filtrante e dell’istinto impetuoso. Un museo non di fantasmi ma di reali urgenze, che potrebbe restare ambiguo e clandestino, semmai, agli occhi del fruitore occasionale, proprio per la valenza dinamicamente misteriosa dei suoi “segni” emozionali ed inventivi. Si ricordi che nella serie felicemente ardita dei Miraggi dell81 era presente l’Oracolo di Delphi: c’è sempre stata la vocazione per gli spettri che incalzano dagli abissi della coscienza, entità larvali, appunto, ma più vere, come tessuto connettivo dei sentimenti e della volontà gnoseologica, dell’intero apparato fenomenico. Sembra che il maestro romano sia stato indotto a ricercare, fra le mille gestualità opinabili ereditate dalla concezione filosofica del nominalismo di Roscellino (il nulla, e quindi la paralisi del giudizio, il “flatus vocis” di qualsiasi concetto, di qualsiasi definizione non importa se teorica o pragmatica), il mistero positivo, l’indefinibile percezione che attraverso il combinarsi meno asseverativo, antinaturalistico, delle forme e del colore, conduce alla monade radicale, alla verità intuita ma sommersa dagli “idòla” innumerevoli del quotidiano, lampeggiante, nel labirinto delle parvenze, solo per qualche spirito eletto. Qualcosa di simile, ancora una volta, all’orfismo di Apollinaire, al prodigio della immagine, della parola, del suono che genera universi, nello stregato evolversi di un’ottica eterodossa dall’apparente al sognificante (è il caso della pittura di Festa), sulla fragilità dell’episodio. La considerazione drammatica della inesorabile mutabilità avvia agli approdi ultimi, un assillo di identità che tende a fare piazza pulita di tutte le incrostazioni dell’habitus borghese. C’entra molto poco, in questo, la conoscenza del Blaue Reiter (designazione di un gruppo tedesco tratta, com’è noto, dal titolo di un quadro di Kandinsky, Il cavaliere azzurro), delle Secessioni di Monaco, di Berlino, di Vienna, di Darmstadt e di altre tendenze e movimenti europei; c’entra poco o niente l’ammirazione per Ensor, documentata particolarmente, più che da L’entrata di Cristo a Bruxelles, da un altro acrilico del 1985, Il carnevale: piuttosto l’ansia esistenziale riferita al crogiolo “unico” di una sola individualità, l’attesa di una risposta salvificata (ma a livello di cura) che dia un senso – quasi di un viaggio verso l’assoluto per le vie dell’iperbole, del grottesco, dell’allucinatorio (vedi Monterchi, questo o quell’altro Ritratto d’uomo, Tindari e alcuni Senza titolo aggressivi e spiazzanti) – alla totalità dell’avvertire e del dipingere. Totalità varia e simbiotica, dialettica interna e visualità trasferita sempre di qua dell’edonismo, come dichiara l’intero ciclo dell’opera di Festa, dai primi dipinti esposti alla Galleria La Salita nel 1961 con un testo di Cesare Vivaldi ai molti quadri recenti presentati in questa estate a Fiuggi. Certa critica ha indotto nel discorso valutativo, sia pure nell’accezione più favorevole, le “citazioni” del pittore: non condivido affatto la tesi, che del resto è solo una tessera dell’infinita possibilità di giudizio che un artista così offre allo studioso, perché nulla è più lontano dal citazionismo di quanto lo sia l’affollata solitudine di Tano Festa. Sorprendente epifania di temi, di pulsioni, di ribellioni, di fervori ominosi portati talvolta fino alla soglia di un sortilegio esoterico, tutta una trama fitta di metafore e di proposte sovrareali (e rimangono estranei, anche qui, gli Ernst, i Tanguy, i Magritte), ma che non ha bisogno, per coinvolgere e turbare, di alcun supporto scenografico. L’assenza costante del supplementare è, infine, una delle tante prove, e forse quella di maggior rilievo, di una fisionomia unghiata ed abnorme, completamente estranea alle equivalenze accomodate nell’area – un immenso deserto di cenere – della più atipica massificazione. La scena che manca nell’allegoria delle quattro stagioni, in un Tramonto dell’ ’86, nelle poche nature morte, nell’uno o nell’altro Cardinale (se non fosse per l’accento allusivo dello schienale tornito del seggio dei porporati), è in fondo sottolineatura d’interiorità: unico referente è lo sforzo concentrato dell’anima; l’artista è tutto lì, nelle figure frontali, belle e terribili, strutturalmente e psichicamente deviate dalla norma; tutto lì persino negli scorci paesistici estremamente compendiari, diventati spazio della memoria e ipotesi di continuità: la palma, il dromedario e la piramide, le quinte scure di Stonegen (1984), l’obelisco e le chiese di Piazza del Popolo. L’assenza è implicante, dunque, premonizione di una pleiade in cui ogni dettaglio contiene germinazioni e morti, aurore ed eclissi. Non credo possa trovarsi oggi, guardandosi attorno, un modello artistico così carico di sotterranee intimazioni; e che resta, tuttavia, a distanza di sicurezza dalla tentazione oratoria, dai parossismi espressionistici e dalla réverie intimista. Tano Festa non celebra miti, non esaspera interne tensioni come i degeneri figli della Brucke, non si isola, stupefatto e smarrito, nel languore della rinuncia. Il suo mondo è, a ben riflettere, orgoglioso e vibrante: spesso sul limitare dell’incubo, ma sempre innervato di corpose virtù tra genesi e fine. E il dubbio, in esso, non è la Sensucht dell’anima tedesca, condizione sostanzialmente corrosiva, ma la diversa tragedia dell’anima mediterranea, riluttante in genere ai teoremi dello spirito, ma pronta ad accendersi alla sua fiamma immediata e a vivere le proprie lacerazioni nell’ordine degli impulsi, risolvendo nel loro primato anche le più disperate antinomie mentali. Talvolta non il ghigno e il satanismo, ma il riso e la caricatura accompagnano la lucida follia di chi cerca l’uomo, pensando di avere abbattuto le barriere dei pregiudizi etico-sociali, portando in giro, inutilmente, la lanterna di Diogene nei meandri della coscienza contemporanea. Ma l’uomo non esiste, o non è riconoscibile. È un’ombra, una comparsa utopica persino il guardiano delle ultime risorse morali, nuovo Don Chisciotte che osa volgere lo sguardo al futuro fra le rovine delle torri d’argilla: mi vien fatto di ricordare un grande dipinto presentato nel 1987 ad Aosta e riprodotto sulla copertina di un catalogo del gruppo editoriale Fabbri, Il cavaliere senza volto.
Qui la sequenza azzardata della cromia, dal giallo sulfureo dell’animale al verde smeraldo del cappello piumato, ma soprattutto la composizione anomala che rovescia ogni canone stereotipo della glorificazione equestre concorrono a determinare, anche se a filo di beffarda amara ironia, l’angoscioso dualismo realtà-idealità, presente e avvenire. Improbabile, d’altra parte, per una coscienza laica quale era Festa, il rapporto immanenza trascendenza. Il gioco spietato si svolge soltanto sulla terra, fra le aspettazioni illusorie e la ineluttabilità del vivere; e 1′ “horror vacui” che a volte sorprende il pittore nel bel mezzo delle finzioni d’obbligo attiene non al territorio fisico, ma alle ritornanti notti dell’anima. Occorre chiarire, prima di ampliare l’indagine su questa personalità genuina e complessa ad un tempo, che qualsiasi indicazione di natura teoretico-contenutistica sarebbe del tutto irrilevante ed estrinseca se non avesse il sostegno della qualità: com’è stata, da sempre, mia scrupolosa consuetudine nella militanza critica, assume un ruolo imperativo, nel giudicare i livelli di merito di un operatore d’arte, la validità linguistica del suo prodotto. E non mi riferisco, ovviamente, alla filologia accademizzante ed asettica – non solo sul fronte della parola, c’è anche in arte una vanità cruscaiola, quella che incenerisce ad esempio il puntiglio esecutivo di tanti adepti della “Nuova maniera” quando la mitografia capillare dell’immagine non trova sussidio alcuno nel calore poetico- ma al congegno senz’altro rigoroso, anche se spontaneo, di tutte le coordinate strutturali, un congegno che amalgama timbro e tono, stesure autonome, di ascendenza fauve, e cadenze volumetriche, grafia sottintesa e atmosfera. Questo c’è nei quadri di Tano Festa, anche in quelli dove il distacco dalla grammatica piramidale sembra sfiorare l’anarchia: elemento essenziale assunto quasi come energia disinvolta e congenita, fuori delle equazioni alchemiche del purismo antistorico. È logico che non mi sognerei di chiamare anacronista, come oggi è invalso in un largo settore della critica d’arte, chi rispetta i cardini della lingua; ma non c’è dubbio che un artista nato verso la fine del terzo decennio, quando gli epigoni del “Novecento” propagandato dalla Sarfatti e le altre falangi del Realismo contrastavano le nuove avanguardie, solo molto più tardi, negli ultimi anni cinquanta, si sarebbe reso conto degli aspetti salienti da rimarcare nel conflitto delle poetiche; e avrebbe potuto scegliere però, sbagliando, le posizioni dell’eccesso, in qualsiasi direttrice di marcia. E invece Festa ha mediato, d’istinto, sotto il profilo squisitamente estetico, tra licenza e disciplina. Un “irregolare”, allora, un antidogmatico, che accetta però le forme leggibili della comunicazione, almeno in una analogia di massima rispetto alla foresta empirica, sorrette da una loro ariosa sintassi. Da tale spunto o particella di ragguaglio comincia il problema, la tremenda avventura, la sfinge dell’oltre. Ma per Tano Festa, che non si pone certo quesiti escatologici, il dissidio bruciante del parere e dell’essere si consuma nei limiti invalicabili di una consistenza subita con tutte le sue ebbrezze, i suoi deliri, la sua bellezza vana, il suo fiele. Si osservino le figure: pur senza sovvertire l’idea basilare di assimilazione debordano dal cliché, certificando insieme la tragicità del vincolo associativo, con gli esiti del bene e del male perennemente in lotta nello sterminato mosaico delle parti, e la impenetrabilità oggettiva del mistero. Questa pittura strana e prepotente non vuole suggerire conclusioni: nella pluralità opinabile delle tesi e delle antitesi si esclude il porto-rifugio; e il vento dispenderà sempre il responso scritto sulla foglia dell’ultima sibilla. Ma si è detto prima che il temperamento dell’artista romano, d’insolita caratura, non si chiude, per questa consapevolezza di inanità e di insolubilità, in una dolorosa frustrazione.
Sa di non intendere, ma disdegna l’alibi fin troppo facile del rifiuto. Del resto addirittura il “pictor optimus”, colui che tentò di superare (invano) i silenzi pregnati della metafisica ferrarese con le solenni certezze di una epopea classico-baroccheggiante, dietro lo schermo della spavalda fiducia in se stesso, nascondeva perplessità e sgomento; tanto da confessare nel corso di un dibattito cui ebbi la fortuna di partecipare, lui il grande accusatore, lui il depositario del vero: “Io della vita non ci ho capito niente!”. È stato scritto giustamente che la forma, nella pittura di Festa, manca di un centro di gravità e di una ordinaria linea di espansione: è il segno del non raggiunto, del non definito, che riflette da vicino il carattere di una instabilità biologico-intellettuale, proclamata ad alta voce come destino non del singolo artista, ma dell’intera collettività umana. Eppure l’elegia elevata a dramma, che non diventa mai, come si è accennato, ossessione ed urlo, si libera d’ogni peso una volta toccata dalla religione dell’arte; che non deifica brandelli terrestri, ma li strappa comunque, per la gioia degli occhi a dispetto delle mille spirituali tristezze, alle sorti del disperdimento. E se è vero che negli anni ottanta Festa ha scavalcato le siepi ideologiche del periodo pop, non c’è dubbio che nelle realizzazioni, a guardarci bene, senza apriorismi, il miracolo c’è sempre stato e la eloquenza del senso della provvisorietà, spesso ostentata con ironizzante fierezza, si è trasformata in eloquenza di poesia. Anche nelle creazioni tematicamente più distanti, a prima vista, ad esempio dalla serie dei Coriandoli, che s’innestano nell”87 nel magma incandescente di una grande tela dedicata a Pompei, all’acrilico Enrico VIII d’Inghilterra o all’altro La contessa di Castiglione, la domanda esistenziale non reclama illazioni liberatorie. C’è in Festa, magari legittimata dall’intrico di esperienze profondamente umane, un po’ dell’ “afasìa” degli stoici: egli non si pronuncia; registra e propone un acervo di ambiguità, di riferimenti fittizi ed effimeri. La sua drammatica finzione di verità egli l’ha vissuta, pagando naturalmente uno scotto cospicuo. E agli occhi degli altri continua a viverla, ora che dolore ed estasi si son fatti memoria, nella realtà di un’arte che non conoscerà, nel suo disarmante antischema, l’usura delle mode.
Tommaso Trini “Sultano” 1991
26 luglio 1991
L’eleganza era il suo stile interiore. Si circondava delle opere ben presenti dei maestri antichi e moderni, frequentando ora Michelangelo e ora Degas, nelle stesse stanze mentali in cui, con quei pittori, poteva appartarsi. In studio, tra i suoi lavori, pensava con finezza d’analisi all’insostenibile grevità del suo tempo che non consentiva più di riconoscere il bello, il vero. E con sottigliezza introspettiva agiva negli affetti familiari che di rado estendeva all’amicizia, mai alla complicità. Quel poco che confessava di sé, lo asciugava col tampone dei colori puri. Una vita non è mai disperata se si offre come specchio alla tela. Per trent’anni, Festa ha lavorato con passione brusca e tanta fatica a una pittura di bellezza che pur conoscendo una crescente fortuna, lui ancora in vita, non è mai stata tanto attuale come in questo momento in cui, da parte di postmodernisti e antimodernisti, si torna a rivendicare con nostalgia l’importanza della bellezza e della qualità e del vero. È pericoloso, il bello non lo si importa dal passato messo in bella copia dagli storici; pericolosa è l’attuale campagna ideologica per un’arte che dev’essere bella per legge; stabilire il bello non è di competenza degli estetologi, che anzi lo mettono subito in pericolo. Come si fa a dire che il modernismo ha negato il bello? Avrebbe dovuto detestare le bagnanti, la grecità, i mari del sud, le maschere africane, l’alchimia, la `joie de vivre’ e le piazze d’Italia. O non sopportare più i PreRaffaelliti, Manet, Gauguin e Degas; né Michelangelo. E invece li ha amati fino a strattonarli. Bella non è la bellezza che si dà a tutti; e difatti Rimbaud la trovò ripugnante. Bella è la coscienza che illumina, superandola, l’età del proprio tempo; bella può essere la bruttezza del resto della propria coscienza di cui ci si libera. Le avanguardie hanno forse ecceduto nel brutto; si vede che l’epoca era invelenita da orrori. Per certo, Festa ha lottato contro le ore piccole della storia.
Roma non era al centro del mondo, nei suoi giovanili anni Cinquanta e Sessanta, e l’arte non era al centro di Roma. I gradi della bellezza si misurano sul potere del tempo, sulla centralità storica del presente; posso capire chi diffida della bellezza, come del potere del tempo: non fanno morire di gioia. Festa e la sua generazione di artisti erano circondati dai primi anni facili della cultura di massa come i vascelli fantasmi lo sono dalla nebbia. Potevano piratare tutto; ma come segregati. Verrebbe voglia di dirglielo, ai filosofi odierni della bellezza a ogni costo: guardi che Festa ha dovuto vivere in tempi laidi. Era drammatica la dolce vita, dura la leadership americana sull’arte, miserevole il collezionismo, nero il mercato. Sì, c’era la pop art, ma bastava appena per una sveltina. Io non so di che pasta fosse la persona dell’artista, nonostante i nostri incontri. So che difendeva, insieme con l’eleganza, anche la sua privatezza. Immagino che detestasse spesso i rituali della scena artistica; allora gli preferiva quelli dell’osteria. E quando detestava se stesso, lo portava a bere, al bar. Ma la pittura no. L’arte, Festa non l’ha mai ubriacata, mai corrotta, mai imbruttita.
Nel suo lavoro incontriamo numerose porte e finestre, ora assemblate in legno e ora dipinte. Che separano, le porte di Festa? E cosa filtrano, le sue finestre a persiana? Hanno alcune funzioni ideali, oltre alle motivazioni imprescrutabili per cui Festa le ha scelte, introducendole nel novero degli oggetti d’arte. La porta sta sul confine che separa l’arte dalla vita; sembra vera, ma è un quadro. Così, la finestra occupa lo stesso luogo mentale ma apre spiragli di comunicazione.
Sono oggetti ricreati dall’artista, non ready-mades come la porta e la finestra già pronte di Marcel Duchamp. E pertanto acuiscono la loro ambivalenza di pitture che sono anche sculture e viceversa, senza divisioni. Sono un monumento alle finzioni della soglia e del passaggio, le finestre e le porte incardinate da Festa. Sono capolavori, fra i più struggenti di tutti gli anni Sessanta. Come i nomi dei grandi Modernisti, Gauguin, Cézanne, Degas, che in un’altra notevole serie di tele vediamo iscriversi in stencil su matasse di pennellate e frammenti figurali, quei simulacri dichiarano apertamente che la visione di Festa procedeva per filtri e il suo lavoro apriva nuove stanze per depositarvi, non più la realtà, non ancora la finzione, bensì le ombre proiettate degli ultimi barlumi di realtà sull’invadenza ormai pervasiva dell’irreale. Ecco, l’arte di Tano Festa signoreggia sul precipizio oscuro di un’epoca di transizione, come un sultano sul suo harem. Costruita su passaggi d’immagini, si solleva sul decadere di interi sistemi storici in frammenti di attualità popular e vi sta sospesa: e vi resiste. Tutti i suoi prestiti e riferimenti presso l’iconografia del Rinascimento, e la nomenclatura Modernista, e ultimamente le figure dell’Allegoria, sono filtrati da frequentazioni affettive, sintesi mnemoniche, riproduzioni che li sradicano e li alleggeriscono. Le sue citazioni da Michelangelo sono lievi come lo spartito di una musica da camera. Quest’opera che mostra poco e molto nasconde, non si è soffermata su un altro signore delle tradizioni epocali e delle “stanze”: Giorgio De Chirico. Ma è precisamente alla strategia incantatoria di De Chirico che ci rimanda. Mutato il contesto, i dirupati templi greci del Metafisico, e i suoi geometrici manichini, e l’impiantito del suo “paquebot”, risuonano come gli echi, proprio, dei frammenti del Giudizio universale michelangiolesco, e delle cifre avanguardiste, e delle porte e finestre rimemorate da Festa. La sua partecipazione alle diverse poetiche del drappello di artisti, pochi critici, rari galleristi, che hanno vissuto gli anni della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo a Roma dalla fine degli anni Cinquanta al Sessantotto, risulta più chiara se ipotizziamo che essi hanno formato un gruppo di resistenza sia al dominio linguistico e mercantile della scena di New York, sia alle avvisaglie della decadenza delle avanguardie nell’arte di massa; una generazione di confine che, per orgoglio e con ansia, dopo avere appena saggiato il dialetto pop americano, ma ben comprese le lezioni di Duchamp, ha mantenuto il criticismo esistenziale ereditato da Burri e l’Informale, e poi ha trasferito il patrimonio delle avanguardie europee, cariche di utopie, in una figurazione ora critica ora fabulatrice. Schifano, Angeli, Festa e gli altri sono le vere Alpi italiane della nuova Europa e, senza nulla togliere alle altre scuole, le sopravanzano. La coscienza storica dei linguaggi e delle questioni sociali del loro tempo traspare dalle opere degli artisti romani, quasi che la storia le firmasse in filigrana. È stato però Festa ad arieggiare prepotentemente col largo delle rivisitazioni camerali della grande arte del passato questo nodo storicista degli anni Sessanta e Settanta. Guardava le figure e i colori dei Maestri con scontrosità meditabonda, immagino; come un pianista che legge un compositore; certo, non copiava, non imitava, ma citava il minimo indispensabile; cercava una chiave d’interpretazione. Dipingeva veloce in studio a partire da premonizioni, non da riproduzioni meccaniche. Nei primi anni, osservava le ombre e le luci danzanti che una serranda o una finestra socchiuse filtravano dallo scorrere della vita esterna nel suo studio; da lì, forse, lo strutturarsi delle sue immagini più note. Nessun maestro, nessuna opera di riferimento erano coniugati al passato: per Festa, tutto era qui e adesso, presente, precario e transeunte. Certo, ha anticipato di oltre un decennio le pratiche della citazione che in seguito avrebbero assunto valenze neomanieriste e neobarocche. Ma c’è differenza. Gli artisti filologi dei simboli e degli stili passati a ben guardare simulano l’antico, lo rinsaldano come inalterato, e sovente “anticano” le premesse ipotetiche di un ipotetico postmodernismo. Al contrario, Festa interpretava nella sua figurazione ellittica, piana ma non stereotipata, la persistenza delle lezioni originali dei maestri insieme con la perdita del loro senso, all’unisono con la minaccia della loro sparizione. Al senso della storia univa un sentimento acuto della decadenza e della fine. La storia era per Festa un processo reversibile di perdita, così come lo è stata la società americana per la scultura entropica di Carl Andre e Donald Judd, negli stessi anni, in condizioni diverse. Gli ultimi anni della produzione di Festa contrastano invece, a me pare, con quelle preoccupazioni. Negli anni Ottanta, la sua pittura moltiplica figure allegoriche e costruzioni simboliche sostanzialmente guidate da un approccio concettuale al dominio della ragione sulla passione e l’emozione dell’esistenza che consuma l’arte. È probabile che il lottatore Tano Festa tragga vitalità dal rivaleggiare con le posizioni della Transavanguardia, che deriva, se non direttamente dalla sua generazione, certamente dal successo della resistenza morale oltre che formale protratta da Schifano, Angeli e Festa. Per certo, incontriamo quadri splendidi, immagini stratificate da un esperto iconologo, in questo periodo; solo i colori si sono fatti un po’ tenebrosi. Bisognerà cominciare, forse, dalla qualità rasserenata della pittura di quest’ultimo periodo per comprendere meglio, o finalmente, sia gli esiti raggiunti e sia le vere premesse della lunga avventura solitaria di Festa di Roma.
Maurizio Fagiolo dell’Arco “FRATELLI: Francesco Lo Savio e Tano Festa – l’essere e il niente, l’azzeramento e il monocromo; il silenzio” 1993
testo nel Catalogo della Biennale d’Arte Internazionale di Venezia curata da A. Bonito Oliva della mostra “Fratelli” a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Museo d’arte Moderna di Cà Pesaro, giugno 1993
Le immagini si dividono in due grandi gruppi opposti: il primo gruppo deriva dall’essere circondati dagli eventi e l’altro gruppo dal circondarli. Questo «essere dentro a una cosa» e «guardare una cosa dal di fuori»; la «sensazione concava» e la «sensazione convessa»; l’«essere spaziale» e l’«essere oggettivo»; la «penetrazione» e la «contemplazione» si ripetono in tante altre antitesi dell’esperienza e in tante loro immagini linguistiche, che è lecito supporre all’origine un’antichissima forma dualistica dell’esperienza umana.
ROBERT MUSIL, L’uomo senza qualità.
Quando facevo professione di critico «militante» (mi si poteva perdonare, avendo 26 anni?), davo alle stampe un libro intitolato Rapporto 60- le arti oggi in Italia (Bulzoni, Roma 1966), ponendo come epigrafe la stessa che si legge in testa a questo lavoro. Ho sempre detestato le epigrafi perché servono di solito a comunicare allo «sprovveduto» lettore brani fossili di libri non letti… Ma quella epigrafe di Musil mi sembrava molto adatta a precisare la situazione di allora, in bilico tra arte programmata e figurazione «novissima» (come definivo la pop all’italiana); mi sembrava ideale per cogliere l’inquietante dialettica tra il mondo e il profondo… Ebbene, oggi posso dirlo, non era una epigrafe di Musil, era Musil rubato a una epigrafe di Lo Savio (Spazio-Luce, 1962). Il testo che accompagna questa mostra (voluta da Achille Bonito Oliva) contiene un capillare regesto, dalla nascita dei Fratelli al 1964: Lo Savio si è suicidato nel 1963, Festa comincia a suicidarsi sposando l’immagine (di matrice USA)… Ogni evento è chiarito nell’intimo, con notizie su esposizioni, recensioni, testimonianze originali che si riferiscono al particolare momento, fatti e problemi dell’anno (abbondantemente illustrati). Non posso quindi, qui di seguito che fornire, nella forma più sintetica che conosco, quella del «dizionarietto», l’idea che mi sono fatto su questa situazione europea che percorre l’Europa a cavallo del 1960.
AZZERAMENTO (vedi SILENZIO; MONOCROMO)
Un grado-zero si impone dopo lo Sturm und Drang dell’Informale: ed è un fenomeno europeo.
Yves Klein propone nel 1957 12 proposizioni monocrome a Milano nella galleria Apollinaire (Guido Le Noci è ispirato da Lucio Fontana).
I tedeschi si muovono su questa via e daranno il via al «Gruppo Zero» a Diisseldorf (1958): Mack, Piene, Uecker (la sorella sposa Klein) sono raggiunti anche dagli italiani di «Azimuth», Dorazio, Lo Savio… Dorazio, già a New York nel 1954 arriva a questa coscienza
[Dorazio, 1960: «Un pensiero critico radicale e analitico rivolto più alla ricerca di un metodo pittorico che a un discorso sull’arte… psicologica della percezione piuttosto che estetica»].
Ma è Enrico Castellani a cogliere un aggancio storico, allora forse poco praticato (Castellani, 1960: «Adesso forse dall’esterno, si può dire che riguardo al famoso azzeramento possa esserci una qualche aria di famiglia, ma al tempo… anche il lavoro di Manzoni era un po’ a latere di quel che facevo io, quella sua componente dada…»). Il nulla, il vuoto, il nichilismo, la filosofia del negativo: ma sono le parole d’ordine di Dada!
Sono passati quarant’anni; il futuro ha ancora questi comandamenti… Nell’estate 1961 alla Salita, mostra O + O, forse auspicata da Lo Savio: i tedeschi da una parte, Klein dall’altra, e in mezzo, lui, col suo «accumulo zero» (come scrive Villa). Nel 1962 partecipa alla mostra Nul, proprio mentre il fratello espone alla Tartaruga in una mostra sulla materia: un altro grado-zero …
AMERICA (vedi INFORMALE)
Il regesto 1957-1963 è ricolmo dei fatti USA: una interminabile spola sul Pacifico, con la sorpresa che spesso Colombo scopre l’Italia (i Fratelli non li vedono solo sui cataloghi quei personaggi, ma possono additarseli a piazza del Popolo). All’inizio è Jackson Pollock: è esposto dalla Bucarelli (con qualche scandalo) nel 1958. «Non abbiamo capito niente», mormora una fonte non sospetta, Mario Mafai (secondo la testimonianza di Lorenza Trucchi). E poi alla Tartaruga si vedono Kline e De Kooning (portati dal barone Franchetti retour d’Amérique). Alla Biennale del 1958 trionfano Rothko e Tobey. Alla Tartaruga nel 1959 si affaccia Bob Rauschenberg. La rivista di Emilio Villa pubblica a piena pagina quei capolavori dell’action painting che i Fratelli (stanno pensando a nuove forme di «inaction») meditano e doppiano. Che cosa li attrae di quell’American Dream? non l’action, ma il silenzio orientale, il gesto che si risolve nel bianco e nero, la tessitura monocroma, l’energia della concentrazione…
COLORE (vedi AZZERAMENTO; MONOCROMO)
Colore di Lo Savio: il bianco, il nero, il grigio: il non colore. Colore di Festa: (almeno agli inizi) il rosso. [Pozzati, 1959: «Festa propone due quadri rossi, uno un po’ burriano, dove la carta dipinta si sfoglia, si solleva, si “stela” come pelle ripulsa dalla stessa tela»].
Tra parentesi, anche Emilio Villa nota la discendenza burriana. E poi, sarà proprio un caso che siano tutti rossi (coniugati col nero), i dieci lavori presentati da Festa alla personale del maggio 1961 alla Salita? Quanto a Lo Savio, non sarà lui a parlare di «colore-idea»?
CONCAVO-CONVESSO (vedi LUCE)
Impressionante quella citazione di Musil doppiata da Lo Savio. In effetti, questa suggestione lui poteva riagganciarla a un fenomeno soltanto: quello degli specchi e della luce raccolta o respinta… Taccio sull’enigma sessuale, per notare come Scialoja abbia visto nei ferri (che, poi, saranno sempre burriani) «il significato della luce, dell’inclinazione, del tipo di materia o di opacità».
CONTEMPLAZIONE (vedi SILENZIO)
Si è sempre parlato di questa categoria per Lo Savio. Ma vale anche per il Fratello. È lui a dichiarare che il suo pianoforte ha tasti di legno che non si muovono, che lo specchio non riflette l’immagine, che l’armadio non contiene nulla, che dalle finestre non filtra luce… «Questi oggetti sono ricostruiti come noi li percepiamo non nel momento dell’uso ma in quello della contemplazione, sono solo delle apparenze, dei falsi oggetti».
CRITICA
Non si può certo dire che i Fratelli siano stati ignorati dalla Congrega Saccente.
Hanno avuto, al momento giusto i compagni di strada più congeniali: Emilio Villa presenta il gruppo a Bologna nel 1960 e, l’anno prima, ha segnalato Lo Savio sulla rivista «Appia Antica», per scrivere l’articolo più memorabile un anno dopo sul suo lavoro. Pierre Restany, il profeta europeo del Nouveau Réalisme, presenta la mostra di gruppo alla Salita nel 1960. Udo Kultermann, nel 1960, include Lo Savio nella mitica mostra Monochrome Malerei, e poi nel 1961 lo accosta a Ad Reinhardt, e lo espone in molte mostre in Germania. Sulle pagine dei giornali sono seguiti con acutezza da Filiberto Menna, Lorenza Trucchi, Marisa Volpi. Tano Festa è assecondato da Cesare Vivaldi (presentazioni 1961, 1963), Giorgio De Marchis (presentazione 1963), Pierre Restany (presentazione 1963). Lo Savio è seguito (con prudenza) da Giulio Carlo Argan, da William Demby e perfino da Leonardo Sinisgalli. E poi ci sono i «colleghi»: Scialoja e Dorazio, Klein e Novelli, Castellani e Manzoni…
DESIGN
La grande illusione degli anni trenta diventa lo scoglio di Lo Savio che parla nel suo libro, ostinatamente, di un necessario atteggiamento sociale, di un incastro «artista-società». Quanto al Fratello, tutto il suo lavoro è un intelligente ossimoro: progettare un oggetto per mettere al suo posto lo scatto dell’idea del soggetto.
FOTOGRAFIA (vedi STORIA DELL’ARTE; LUCE)
Il dizionario dei luoghi comuni assicura che non è arte (è, anzi, il suo contrario). E allora, Lo Savio approfondisce il «contrario», mentre Festa che ha studiato fotografia (non dimenticando la visita in via Oslavia col suo maestro di fotografia Ferretti, per riprendere il vegliardo Balla) recupera dopo il 1962 i lacerti di un mondo che è solo apparentemente «fotografico». Quella dei Coniugi Arnolfini o della Creazione di Adamo è memoria (in positivo-negativo) non della fotografia tout court, ma: 1) della storia dell’arte; 2) dell’enigma eterno (metafisico) della luce… Il rosso è quello della camera oscura.
GEOMETRIA (vedi DESIGN; CONCAVO-CONVESSO; IDEA)
«La geometria è una vocazione più che un sistema» scriveva Sinisgalli, con matematico furore, nella monografia di Lo Savio. Ma non era buon profeta quando assicurava che la geometria «è l’istinto di conservazione… di sopravvivere, di non morire». Lo Savio è riuscito a dimostrare che si può morire anche di geometria: ed era più profeta Villa quando scriveva nel 1960: «In fondo, la geometria di Lo Savio è il suo calvario… Geometria è, in Lo Savio, ogni campo investito dallo spazio, che vi si aggruma, che si esclude dalla “luce”, lo spazio che è la morte, la contrazione, lo spasimo cieco, la radice convulsa di morte». Demby legge la geometria nel senso del «profondo» (a proposito delle Articolazioni totali): «Un ventre, un rifugio di pittura impastata col cemento». Quanto al Fratello, la sua geometria trascorre da Vermeer a Mondrian.
È Lorenza Trucchi, sottolineando la sua «malcelata nostalgia metafisica», a dire esemplarmente: «sembra aver risciacquato il suo neo-costruttivismo nel Tevere». Geometria che svanisce come in Malevic (Lo Savio); geometria che si aggruma come in de Chirico (Festa)
IDEA
Dal primo flash di Villa («Appia Antica» 1959): «Dal colore alla luce dalla luce allo spazio, e dallo spazio a un probabile umore di idea». Francesco Lo Savio, nella dichiarazione della mostra di Leverkusen (1961), arriva a parlare di «ideaoggetto». E non sono soltanto «idee» i metafisici «mobili sulla parete» di Festa? Quanto a Villa, insiste, nella prima presentazione (Bologna 1959): «Si veda di Lo Savio il paziente sortilegium, l’artificiosa ricerca dell’increato, l’umile atto di referenza alla indiscreta e baluginante caligine dello spazio, che non è colore, ma idea». INFORMALE (vedi AZZERAMENTO)
Tutto qui è il problema dei Fratelli (compagnons de route), il superamento di quel momento tanto ricco di materia, di segno, di gesto, di colore, di azione. Per ritrovare un grado zero: sarà possibile? Sono gli anni di Michel Tapié e della sua «Art Autre», che si spinge nel 1957 anche a Roma come consulente della «Roma-New York Art Foundation» (ma di Tapié possono condividere l’amore per l’oriente, il brivido sottile della contemplazione). Presentandoli a Bologna nel 1959, Emilio Villa fornisce una sintesi (quasi satanica) di quel clima da superare: «Sono esemplari nuovi di operazione che possono essere accolti tra le rare ed energiche, giovanili, testimonianze di una imminente ribellione al vizio corsivo odierno, ecumenico, della pittura colorata di pletorico magma, dei plasmi caotici, delle nevrastenie sofistiche, delle scroscianti convenzioni esistenziali, tinteggiate e manipolate a vanvera, a qui pro quo». ( Pozzati,1959: «Se ne incuriosì lo stesso Arcangeli»).
LETTERATURA (vedi STORIA DELL’ARTE, SILENZIO)
Due ragazzi nati a Cinecittà, con le Capannelle e «Hollywood sul Tevere» nell’inconscio, in una casa popolare concessa al padre dal regime (già, sorpresa dalla mostra: non erano fratellastri i due ragazzi dal cognome diverso, ma sono effettivamente fratelli…). Eppure, quanti libri giravano tra quelle mani… Nei progetti di Festa (conservati da Franchetti) affiorano omaggi a Joyce, Valery, T.S. Eliot. E ancora… Le poesie di Sandro Penna, l’amico di Tano (che cerca anche di sfidarlo sullo stesso campo della strofetta). L’uomo senza qualità di Musil (Lo Savio lo cita nel suo libro del 1962). Gli scritti essoterici di Emilio Villa (troppo bistrattato, oggi riemergente): quanti libri fuori moda avrà consigliato ai Fratelli…
LUCE (vedi FOTOGRAFIA; METAFISICA; MONOCROMO)
È Villa, nel suo testo fondamentale, a dare la chiave di lettura; la luce come quoziente «presocratico». «Egli ora si ritiene “operatore della luce”: bene, operarius lucis… La proiezione della sua opera che, appunto, agisce su impulsi orientati in direzione di superiori rilevazioni, lungo intervalli analitici volti all’altra zona centrifugante, poteva essere tematicamente chiamata “luce”. Da intendere come esitazione (transito, passaggio, abbrivido) in intervalli della linea del rigenerare». Già nella prima personale del 1960 Lo Savio batte sulla tematica della luce, una utopia realizzabile. Sono stati due pittori a precisarmi il valore di questa ricerca.
(Scialoja, 1959: «La luce. Come oggetto, non come appartenenza a un colore o alla materia. Ma la luce in sé, come essenza. Una idea essenziale. La luce come dotata di una sua spazialità propria, fisica, tangibile spazialmente»). (Lombardo, 1960: «La luce bella come quella di Plotino, viva come quella dello pseudo Dionigi, fondamentalmente invisibile all’occhio fisico e perciò certamente una luce interna»; e ha parlato ancora del Pantheon col suo invaso sferico che nasce dal globo di luce). Quanto al Fratello, è tutto un programma il suo omaggio continuo a Jan Vermeer, il teorico nordico di una luminosità-illuminismo…
METAFISICA (vedi CONTEMPLAZIONE; IDEA; LUCE; SILENZIO)
È Festa (con Del Pezzo) il primo riscopritore del disprezzato metafisico. Vivaldi nota nel 1961 il «gesto non utilitario calato in un manufatto di esecuzione impeccabile»; Menna rileva in una recensione la pulizia dell’antico classicista. «Factual Art» definisce Sidney Janis il lavoro di quei suoi figlioletti (Festa compreso) che presenta nella mostra «New Realists»: nuovi scopritori dei feticci e totem della città e della vita quotidiana. Basta leggere il passo di Festa (1966) sulla scoperta degli Arnolfini: non lo appassionano le due figure (quanto cariche di significati!) ma proprio e soltanto quel contorto complicatissimo lampadario: l’unica cosa che sopravviverà della scena (come un «mobile sul soffitto»). Quanto al Fratello, perché non pensare che le Articolazioni totali (1962) non possano leggersi come la realizzazione stereometrica e astratta di una «piazza d’Italia» o forse di un «interno metafisico»?
MONOCROMO (vedi AZZERAMENTO; CONTEMPLAZIONE; SILENZIO)
Le tappe sono indicate nel regesto: e sono accelerate come una «action adventure».
Nel 1957, Klein espone a Milano le prime Proposizioni monocrome.
Nel 1958 alla ribalta è Manzoni, e ancora Klein (ma anche i Ferri di Burri, esposti in quest’anno sono nel tema). Nel 1959 i Tagli di Fontana e la mostra di Dorazio a Berlino; e poi i «gruppi» di ricerca a Milano e Padova e la rivista «Azimuth» a Milano con Castellani e Manzoni (Non commettere atti impuri si intitola un editoriale di Vincenzo Agnetti).
Nel 1960, la sala monocroma di Dorazio alla Biennale di Venezia e la mostra Monochrome Malerei a Leverkusen (partecipa Lo Savio); nell’introduzione, Kultermann legittimala nuova corrente innervandola nel flusso di Futurismo -Malevic-Neoplasticismo. A Basilea, la mostra Nul bei nul. Una avventura accelerata come quella dell’Informale: una «grande illusione» che dura tre o quattro anni. Purezza: solo un attimo di sosta…
MORTE
Yves Klein, 21 gennaio 1962. Franz Kline, 1962 (Festa gli dedica il progetto di un «monumento»). Piero Manzoni, 6 febbraio 1963. Lo Savio, settembre 1963 (suicidio, 28 anni).
Premonizione di Villa (1960): «Disperatamente egli sta cercando origini pullulanti, l’immediato motore, la cancellazione delle urgenze di campo e delle solitudini quantitative spaziali. Disperato amico mio».
PATHOS
Ho letto, a proposito della ricerca di Lo Savio, gli aggettivi più svariati ma tutti sullo stesso tono: freddo, meccanico, rigoroso (il rigor mortis?), algido, distaccato, scostante, gelido, asettico, frigido… Giulio Carlo Argan, in una lucida intervista (pochi giorni prima della sua scomparsa) ci ha parlato di pathos… («La grande passionalità simbolica che lui collegava al suo razionalismo»).
Ma anche Marisa Volpi (1961) ha intravisto un mistero nella pulizia losaviana: «Si imponeva sugli altri per il suo acceso purismo. E per l’enigmaticità… C’è sempre qualcosa di allarmante dietro all’aspirazione di scientificità».
SILENZIO (vedi AZZERAMENTO; CONTEMPLAZIONE; MONOCROMO)
I primi titoli di Lo Savio hanno uno strano sentore di oriente: Un pretesto per non essere, L’esigenza di una comunicazione, Io giungo all’essere e a me stesso… È l’idea cardine che da Marcel Duchamp arriva a John Cage (i suoi interventi sono del 1957 e 1961). Il Vide di Yves Klein, la galleria vuota esibita come una mostra, è del 1958. Il silenzio di Lo Savio affiora dalle testimonianze ( Pozzati, 1960: «Opere pur tutte aniconiche diventano oggettuali e “iconiche” per la loro forte presenza.
Un silenzio grave, quasi metafisico, austero… Un velo presente davanti alle opere, una specie di astensione»). E sarà quanto mai felice l’abbinamento, voluto da Kultermann a Leverkusen nel 1961, Lo Savio-Reinhardt. A Leverkusen nello stesso anno, Lo Savio decreta: «Sensibilizzare lo spazio vuoto inteso come un momento dinamico della luce». Ed è tutto un clima: una pagina del premio Lissone 1961 reca le riproduzioni (non uno sfallo) di Festa, Schifano, Lo Savio, Sordini, Uncini, Paolini.
STORIA DELL’ARTE (vedi LETTERATURA)
Un codicillo (non indifferente) alla cultura dei due ragazzi di periferia. Nell’introduzione al libro, Lo Savio ricorda che nel 1954 frequentava Wright e Gropius, la Bauhaus e De Stijl, Mondrian e Klee, Malevic e Gaudí, Le Corbusier… E Festa ricorda la passione per Matta e Gorky, De Kooning e «soprattutto» Rothko, Pollock e Tobey; ma anche Balla (che fotografa in via Oslavia) e de Chirico. (Rotella, 1958: «Festa era un entusiasta di de Chirico e credo che nel suo lavoro sia sempre presente una atmosfera irreale e atemporale»). E poi c’è il dadaismo di Duchamp e il rafforzato amore per Malevic pazientemente divorato da Lo Savio alla mostra della Bucarelli nel 1959. Insomma il Nuovo Mondo e la vecchia Europa convivono in una fame di cultura che porterà Lo Savio a scegliere un edificio di Le Corbusier come ribalta per la calata del sipario.
TEORIA
Un artista sa sempre dove vuole arrivare, ma spesso non riesce a esprimerlo neanche lui.
Diffidare, quindi, sempre dei libri e auto-presentazioni… Vi esonero quindi dal leggere Spazio-Luce di Lo Savio: il ragazzo assatanato che credeva di continuare il Bauhaus e aveva in realtà preconizzato (vedrà la luce cinque anni dopo il suo ritorno nel Nulla) la Minimal Art.
Francesca Alfano Miglietti “Tano Festa: per una molteplice identità” 1993
testo nel Catalogo della Biennale d’Arte Internazionale di Venezia curata da A. Bonito Oliva della mostra “Fratelli” a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Museo d’arte Moderna di Cà Pesaro, giugno 1993
Ho visto il mio moretto seduto giù in platea fumava un sigaretto e gli occhi lustri avea
Sandro Penna
Una linea ininterrotta di intensità, una serie di scorci di un immaginario che produce eventi visivi, immagini che comunicano l’una con l’altra attraverso micro-fessure, come in un cervello, questo lo stile di Tano Festa, singolare episodio di una dimensione del fare arte, di una dimensione dominata e travolta dalla iperlucidità che provoca stati di alterazione, che induce a un nuovo modo di vedere, di pensare l’arte, di intendere la vita. Artista abbondante e generoso di intuizioni e di immagini, Tano Festa traccia linee segmentate di metamorfosi, esplora territori dell’immaginario, attraversa interzone tra linguaggi multipli, aziona una sorta di antimemoria, come se attraverso la molteplicità delle sue immagini e delle sue intuizioni visive, tracciasse una «carta geografica» che deve ancora essere costruita, un tracciato delle connessioni mentali con una sedimentazione dell’immaginario, una carta smontabile, rovesciabile, modificabile, con molteplici possibilità di entrata e di uscita, e soprattutto con infinite linee di fuga. «L’arte è universale e dirompente: è come un colpo di pistola che squarcia il buio e spezza il silenzio», sostiene Tano Festa, e questa è l’arte che produce: un continuo di opere e di immagini taglienti che trapassano da parte a parte la materia dell’immaginario definendo una serie di stati mentali, tutte le specie del divenire della pittura. Festa produce opere come componenti mimetici destinati a disseminare le componenti di una unità esplosa: apre una nuova dimensione, una concatenazione di desiderio, innesca l’attimo dell’intuizione nel momento in cui lo colpisce. Non approfondisce, non interrompe, non analizza, si lascia andare al flusso della scoperta: «Le cose che mi vengono in mente, non mi si presentano attraverso la loro radice, ma per un punto qualsiasi situato verso il loro mezzo. Cercate allora di trattenerle, cercate allora di trattenere un filo d’erba che comincia a crescere soltanto nel mezzo dello stelo, e di aggrapparvi ad esso» (Kafka), ed è nel «mezzo» dell’arte che Tano Festa indaga e implica la dimensione delle passioni, passioni in cui le immagini si divaricano e si disperdono, si urtano, coesistono, in un movimento anarchico e assolutamente preciso, nel luogo in cui la razionalità e l’immaginazione, nel loro intreccio, per Tano Festa morboso, determinano nuove porzioni di mondo, nuovi territori, nuove terre da scoprire, nuovi viaggi. Come parlare della moltitudine di immagini e di tensioni di Tano Festa? Come farlo senza trasformare le sue molteplici identità visive, le sue porzioni di mondo, le sue tappe di esplorazione, in una «carriera artistica»? Per Tano Festa l’arte non è una condizione giocosa, non è sperimentazione, non è un modo tra tanti di «esserci». Per Tano Festa l’arte è un dialogo tra le sue passioni, è contegno, è una dimensione austera, è la possibilità del linguaggio di diventare esistenza. Tano Festa ama l’arte, tutta l’arte, in modo particolare articola il suo amore per de Chirico e Carrà, per i costruttori di atmosfere, per gli esploratori della mente alterata! Già dalle sue prime opere (quelle dei così decantati anni sessanta), Tano Festa fa interagire contrapposizioni e scansioni di un ambiente mentale che sceglie il dialogo alternato tra materiali, tele rettangolari su cui incolla un velo di carta colorata (Rosso 21, A Raffaele, del 1960) superfici scomposte in rettangoli separati da losanghe di legno: un ritmo, i colori sono contrapposti in alcuni casi, monocromi in altri, un ritmo preciso come una partitura musicale, lo stesso ritmo che crea quando sostituisce le strisce di carta con strisce di legno rigide (A Sandro Penna, Via Veneto n.1, del 1961). Una pittura che inizia a sottrarre peso, una pittura che non vuole solo azzerare ma che vuole iniziare a definire territori, a «riquadrare» dimensioni mentali, a indicare stati percettivi con i quali concatenarsi (Particolare di Dublino, 1961, Interno e Per Mark Rothko del 1962).
Tano Festa inizia a scegliere i suoi territori direttamente nell’arte, intuisce che è la stessa arte l’universo a cui riferirsi, ma non come citazione, non come «calco» di un immaginario già prodotto, ma come alterazione di un virus di contagio, una impercettibile rottura piuttosto che un taglio eclatante, Festa guarda all’arte che più gli piace come un haker, entra nell’opera dell’altro, sottrae dati e informazioni, e li immette in un altro tessuto e in una nuova situazione. Pensa alle opere d’arte come materia viva, come «mondo reale», e si muove come un pirata da un dato ad un altro, da una immagine a un’altra, da una situazione poetica all’altra: «Io sono un ladro, perché ogni pittore è un ladro. Anzi tutti gli artisti lo sono: ci rubiamo l’un l’altro le idee. E il loro furto è trionfalmente legalizzato onorato e mercificato in soldi dalla società civile». In Festa, dunque, agisce la coscienza del proprio orizzonte di riferimenti, e ci trascina irresistibilmente verso le materie delle sue passioni, un nuovo universo esistenziale in cui l’identità si trasforma in una trama di riferimenti lontani e di ossessioni violente. Tra il 1962 e il 1963 inizia a realizzare vere e proprie «alterazioni oggettuali»: porte, finestre, persiane, battenti, armadi, specchi ottusi, superfici senza spiragli, senza trasparenze. Certo il riferimento più facile sarebbe quello duchampiano, ma non è l’humor duchampiano ad attrarre Festa, piuttosto i piani di solitudine di Carrà, le attese di de Chirico, l’immanenza del tempo, gli stati di alterazione della coscienza che non vuole essere sempre vigile, sempre presente. Tano Festa esplora gli «strumenti» di alterazione dell’io, esplora le zone meno vigili della sua coscienza, e con uno sguardo che esce dall’abitudine percettiva, vede. Vede gli oggetti del mobilio domestico come schermi su cui proiettare la sua visione del mondo, aperture, chiusure, porte, finestre, armadi, possibilità di entrata e di uscita, ma nell’immobilità del corpo, guarda e ricrea oggetti per uscire dal mondo angoscioso delle cose, per viaggiare senza muoversi, per uno stato in cui è la mente che si muove, non il corpo: «Questi oggetti sono ricostruiti come noi li percepiamo non nel loro momento d’uso ma in quello della contemplazione, sono solo delle apparenze, dei falsi oggetti. Ma è proprio da questo loro essere falsi che deriva l’espressione del modo in cui li ho percepiti», scrive Tano Festa in una lettera ad Arturo Schwarz nel 1966. La consapevolezza estrema del suo fare, la lucidità delle sue scelte, dunque, la possibilità di modificare lo stato delle cose proprio a partire dalla contemplazione, non dall’uso, uno sguardo capace di aprire orizzonti a partire dalle cose che ci circondano, gli stati di immobilità percettiva che aprono alle infinite possibilità della mobilità della mente inquieta e lucidamente alterata. Non ready-made dunque, ma oggetti costruiti «apposta», nello spostamento, nello scarto tra gli «schermi» dell’immaginazione e le basi per la costruzione di nuovi modi di pensare all’oggetto. E non in quanto prelievo dal reale ma in quanto creazione di mondi poetici, un modo di coniugare l’estrema razionalità e lucidità con le passioni percettive che fuggono dal già assodato, dal già conosciuto, pur nel tranquillizzante aspetto «domestico» delle forme. E negli stessi anni, accanto alle porte, alle finestre, agli armadi, ritorna a costruire i listellati rigidi, strutture che evocano pianoforti, organi, tastiere (Albinoni, 1962, Studio per pianoforte, 1963). Ancora una volta oggetti colti come presenza, non come valore d’uso, come attestazione di una identità formale, come dimensione onirica, come «…recupero del mistero», come atmosfera metafisica, come intermezzo tra uno stato emotivo ed uno stato logico. Come alleanza tra uno stato di quiete e uno di angoscia, come un viaggio tra le cose in cui sono le cose a prendere velocità, oggetti come zona di frequenza e di probabilità che delimitano un campo che neutralizza in anticipo le espressioni e connessioni ribelli ai significati conformi. Il 1963 e il 1964 sono anni densi per Tano Festa (come torneranno ad essere densi, per l’artista, gli anni ottanta, gli anni maledetti), in questi anni le opere segneranno una serie di linee di «lavoro sull’immaginario» e di punti precisi di ambiti di ricerca. Sono del 1963 l’Obelisco, la prima Lapide, Le Stanze del Vaticano, Tricromia del cielo, Particolare dei Coniugi Arnolfini, per citarne solo alcune, e del 1964 Dalla odalisca di Ingres, Dalla creazione dell’uomo, Particolare della Cappella Sistina, Armadio con cielo, anche queste solo alcune di quest’anno. Inizia qui a delinearsi un atteggiamento modificato, sia nei confronti dell’opera che nei confronti dell’intera storia dell’arte. «All’inizio del 1962, passando per via due Macelli, vidi attraverso la vetrina di una libreria la riproduzione del quadro di Van Eyck I coniugi Arnolfini. Osservando il quadro mi sembrò che il suo vero protagonista fosse il lampadario, perfettamente immobile, come se nulla, nemmeno un forte vento potesse farlo oscillare.
Questo lampadario incombe sulle figure degli Arnolfini come qualcosa che sta a misurare la durata e quindi il limite delle loro esistenze. Pensai con malinconia che gli Arnolfini sarebbero scomparsi molto prima del lampadario, che da tutta quella scena sarebbero stati i primi a uscire, mentre gli oggetti sarebbero rimasti ancora per lungo tempo al loro posto, testimoni muti e impassibili delle loro esistenze», scrive Festa nella già citata lettera a Schwarz, per motivare il suo interesse sulla possibilità degli oggetti di essere protagonisti. Intuizione dolorosa e angosciosamente vera.
Anche nell’esistenza, spesso, il ricordo e la mancanza di un affetto vengono segnalati dagli oggetti che appartenevano a coloro «che per primi sono usciti dalla scena” Tano Festa inizia in questi anni un lavoro di montaggio tra segni visivi di varia natura: immagini su carta emulsionata assemblata con legno e smalti, immagini fotografiche alternate con segni di pittura: fantasmi di volti in uno specchio appannato accanto ad una iconografia monumentale. Le opere della «grande storia dell’arte»: Michelangelo, poi Ingres, poi… Immagini, non citazioni, ma immagini di immagini, come nel gioco mediale, una spregiudicata lucidità, un modo di colpire direttamente il cuore di una iconografia divenuta sempre più popolare. «È spregiudicato l’artista pop americano che elegge a status symbol della sua cultura la bottiglietta della Coca-Cola o il cartellone pubblicitario? Mi dispiace per gli americani che hanno così poca storia alle spalle, ma per un artista italiano, romano e per di più vissuto ad un tiro di schioppo dalle mura vaticane, popolare è la Cappella Sistina, vero marchio del made in Italy. E poi di Michelangelo mi ha sempre colpito quella diffusa e sottile ambiguità omosessuale… Quanto all’uso di smalti violenti che negli anni sessanta ebbe il sapore intenzionale di un pugno allo stomaco vedo con piacere che il nuovo restauro della Sistina, a opera dei giapponesi, sta tirando fuori tinte brillanti e contrastanti che fanno impallidire le mie» (da una intervista con Antonella Amendola, in «Max», n. 130). Festa «usa» la pittura come un muro su cui l’immaginazione deve rimbalzare, costruisce un muro di lucida e consapevole materia di distinzione, un movimento, una cifra, un codice, una lingua segreta che mette in questione il sistema delle variabili della pittura pop. Tano Festa gioca in una zona distante, un gioco anomalo e solitario, crea uno stile, e per stile, con Deleuze e Guattari, qui si intende «il procedimento di una variazione continua», una dimensione allargata del cromatismo, una vorticosa produzione di intervalli e di velocità, una dimensione mobile che cambia di segno gli elementi e che mette tutto in variazione. Ma il gioco di Tano Festa e dei suoi «capolavori riscoperti» o «ricoperti» o semplicemente utilizzati, è molto più complesso della sua spregiudicata e ironica risposta: è il gioco creatore delle lingue straniere, di quella lingua in cui parla Proust («I capolavori sono scritti in una specie di lingua straniera») e Tano Festa comunica con la lingua della pittura, la sua lingua, come se fosse una lingua straniera, aziona il linguaggio multilingue, ma nella sua stessa lingua, la lingua di ciò che è creativo e ribelle, creativo nella scelta delle materie dell’immaginario e ribelle nell’opposizione ai modelli costanti: la lingua delle mutazioni. In questi anni Tano Festa intuisce che gli spazi aperti dei suoi primi lavori, spazi aperti a qualunque possibilità, divengono in questa nuova prospettiva scansioni di fotogrammi di un lungo, ipotetico, lucido film in cui utilizza lo sguardo da «consumatore» di immagini degli anni sessanta, e guarda con la stessa confidenza immagini di oggetti estrapolati dal quotidiano e immagini di opere d’arte. Emulsioni … fantasmi della pittura incollati sul legno, per poi dipingere gli «intervalli», le zone che inghiottono l’immagine, per segnalare la sua lingua segreta. In seguito (1965-66) sostituisce l’insieme «emulsioni fotografiche/zone dipinte», ad uno schema geometrico in cui si alternano dettagli da Michelangelo, pannelli colorati, scritte, la successione di immagini ripetute in positivo ed in negativo, una serie di quadri e riquadri che producono un evidente estraneamento delle immagini, una sospensione di giudizio, un modo di creare senza determinare posizioni. È il cielo il protagonista delle opere di Tano Festa di questi anni, quel cielo, precedentemente dipinto e inserito nelle finestre, nel 1965 diventa attore protagonista, il cielo appare nei «fotogrammi» dell’opera, nell’opera «fatta a pezzi», nella moltitudine di contesti in una sola superficie, come nelle opere sempre di questo periodo (Il periodo blu, Indagine sul punto) in cui si incontrano Picasso e Michelangelo, Mondrian e Lichtenstein, in cui incontri straordinari sono possibili in cieli straordinari, nell’esplosione delle nuvole, negli orizzonti planetari in cui avvengono sogni e incontri. Tano Festa sottrae al tessuto dell’arte elementi precisi e li mette in relazione in un altro contesto, come in un discorso indiretto che separa le forme dai loro «stati» primari, una condizione cangiante, la stessa (a volte iniziatica, a volte simbolica) attraverso la quale anche gli uomini devono passare per mutare identità, per moltiplicare la singolarità. Tutta l’opera di Tano Festa è fondamentalmente in rapporto con due stati emotivi: il segreto e la scoperta. Il segreto non legato ad un dato particolare, ma la forma stessa del segreto che resta per sempre impenetrabile … per sempre … come nelle storie di innocenza. Un segreto celato nelle passioni di Tano Festa, nelle pieghe dei suoi riferimenti, del suo cambio d’umore (e parliamo di opere, naturalmente, parliamo della serie Da Michelangelo, 1966; Michelangelo according to Tano Festa,1966, parliamo de Gli amici del cuore, 1967), un segreto nascosto nei piani sequenza, negli elementi di disturbo, nelle interferenze, e, infine nell’espressione struggente e immanente del volto michelangiolesco che ci appare come un elemento tra gli altri, un corpo pronto a tutto, a ricevere tutto, punti, linee, frammenti di altre opere, quadrettature, e smalti, che iniziano a farsi articolare dalla lucida ossessione di Tano Festa. L’altro elemento, la scoperta, è presente in tutti i lavori di Festa, una scoperta (foss’anche la scoperta dell’esistenza del mistero) di cui Festa ci fa partecipi, e anche per chi si pone di fronte all’opera già conosciuta, c’è sempre un elemento nuovo, un particolare sfuggito alla prima percezione, un azzardo imprevisto, un attraversamento inatteso. «Tutti parlano di me solo in relazione a quelle persiane che mi perseguitano da Biennale in Biennale […] Ora dipingo in un altro modo. Questi quadri che vedi nascono da un’intuizione, un’immagine della storia o magari da un film che guardo in televisione e poi sogno. Sono i fantasmi della mia cultura e, soprattutto, le immagini che mi bombardano il cervello tutti i giorni, dal teleschermo» (da un’intervista di Dimitri Buffa, «Venerdì della Repubblica», 12 febbraio 1988), ancora un esempio di consapevolezza dunque.
Tano Festa percepisce molto lucidamente lo spazio saturo di informazioni, e invece di subirlo passivamente lo manipola con una lucidità visionaria e attenta. Nel percorso di Festa ci sono delle tappe e dei quadri/spia, opere che segnalano di tanto in tanto la zampata geniale, l’intuito che deterritorializza. Già nel 1963 sfonda gli spazi angusti dell’inconscio con Le porte del Paradiso, il primo armadio in cui compare il cielo, il primo momento in cui all’angoscia esistenziale sostituisce l’orizzonte delle mutazioni, in cui esce dal panico per entrare in una zona aperta dell’immaginario, sostituisce i fantasmi con le nuvole, toglie peso, sottrae tensione e agisce un contenuto-materia che crea gradi di intensità, di resistenza, di distensione, una pittura fatta di «tensori», di attimi di leggerezza pronti ad incendiarsi. Nel 1968 Il Periodo rosa di Tano Festa indica ancora una sottrazione, la riduzione del colore ai suoi primari, (Periodo rosa n. 8), intuisce la necessità di un percorso essenziale mediante superfici che fanno ricorso ad una mentalità capace di attivare i momenti di solitudine di una macchina astratta in cui disporre gli indici, i simboli, i diagrammi, di una pittura che vuole misurarsi contemporaneamente con le dimensioni disperate dell’io e con le sue estreme consapevolezze, la certezza di un’arte già esistente segnalata da opere, testi, icone, da cui Festa attinge le immagini che trasformerà in immagini di immagini. È del 1969 il quadro Ici c’est la place de la Gioconde, un altro esempio della mentalità contemporaneamente logica e visionaria di Tano Festa. In un viaggio a Parigi, e nella necessaria visita al Louvre, Festa trova un biglietto al posto dell’opera La Gioconda, un biglietto su cui era scritto «Questo è il posto della Gioconda», in prestito al Giappone in quel periodo. L’opera di Tano Festa riproduce il muro, coglie l’attimo dell’assenza, ed evidenzia in un solo gesto la sostituzione, lo sguardo rapinatore, il gioco tautologico, l’evocazione monocroma, la consapevolezza concettuale dell’arte e la capacità di poter utilizzare tutto per la creazione di un ulteriore punto di vista, quello del masticatore di immagini. 1970, l’anno de Il falciatore, l’inizio di una nuova serie di incontri per Tano Festa, l’inizio degli anni caotici, clandestini, coatti, disperati, anni densi di una pittura straordinaria, di un rapporto con l’arte assoluto, anni in cui Tano Festa sceglie gli interlocutori della sua pittura e del suo modo di pensare l’arte. Gli anni settanta e gli anni ottanta di Festa, quelli che creano problemi, quelli di cui a volte è difficile parlare, gli anni in cui sceglie le alterità alla mondanità artistica, gli anni in cui affonda gli occhi, le mani, la merce, in una dimensione che sceglie: sceglie le immagini del suo percorso, la visionarietà, il delirio poetico, sceglie di non lasciarsi prendere nel gioco dei «primi della classe», sceglie i vicoli solitari del guardar «dentro» guardando «fuori». Festa sceglie di attraversare la soglia, quella soglia tante volte dipinta, realizzata, resa vera, quella soglia che ormai è diventata un marchio di fabbrica («[…] Tutti parlano di me in relazione a quelle persiane che mi perseguitano da Biennale in Biennale») e oltre la soglia c’è la totalità, ci sono le molteplici identità di Tano Festa, ci sono opere, (come ad esempio la prima riferita a Las Meninas, del 1973, in cui attraverso la citazione si impegna decisamente con la pittura). C’è una pittura ormai addomesticata, c’è la libertà di scegliere gli antenati, ci sono i miraggi, ci sono i monumenti al colore, ci sono i ritratti, ci sono gli omaggi, i riferimenti letterari, i castelli, i coriandoli, paesaggi e paesaggi di immagini, luoghi in cui poter distinguere il reale, la rappresentazione, la finzione, l’iperreale, e soprattutto le frequentazioni affettive di Tano Festa, gli artisti che amava, le immagini che lo catturavano, senza nessuna cronologia. Tutte le opere che Festa amava le considerava a lui contemporanee, come amici a cui rivolgersi per uno scambio di opinioni. Opere come autonomia d’espressione, perché esprimere vuol dire non dipendere, opere che divengono paesaggi, personaggi, impulsi, situazioni che continuano ad arricchire le loro relazioni interne, opere, linee di pensiero, possibilità pittoriche, la pittura per Tano Festa è una dimora, un’andatura su cui innesta una linea di fuga, l’emergenza che definisce un territorio. L’arte per Tano Festa è un divenire, un’emergenza, un manifesto, un prendere distanza, e le sue opere sono una serie di distanze, componenti di passaggio e di ricambio.
È del 1978 la serie Da Michelangelo, infinite possibilità sulla stessa porzione di immagine, la stessa immagine ripetuta, ribaltata, replicata, «disturbata», ingrandita, rimpicciolita, colori mutati, mutanti, alterati, piatti, come se Tano Festa avesse voluto fare e rifare per carpire il segreto, l’enigma di quell’immagine con gli occhi chiusi, dolente, distante, fare e rifare mutando solo il colore, quel colore su cui il nero si dispone al tratto, come per un manifesto pubblicitario, un manifesto che pubblicizza l’estraneità e l’intensità, prove e riprove di colore, come in preda ad un movimento smanioso alterato inquieto, come se alla fine ci fosse una nuova porta da aprire, da cui vedere le nuvole. Gli Omaggio al colore sono altrettante porzioni di spazio da indagare: Degas,Van Gogh, Cézanne, Renoir, Manet, Ingres, Picasso, tutte lapidi con lo stesso «sfondo nuvoloso», partiture di colore veloce, definitivo, impreciso, una partitura brutale su cui inscrivere il nome, il «nome», come su un trofeo o come appunto su una lapide, definitivi, come i momenti di angoscia o di estasi, come la scelta di andare fino in fondo, come una combustione di amore.
Tano Festa sceglie la pittura come esilio, la frammentazione che estrae dal caos il pensiero e l’immagine, una metamorfosi potente, le varianti di una scelta che conduce alle passioni e all’indifferenza per tutto quello che non è universo sensibile, la fierezza di possedere una dimensione che non è semplicemente una certezza, la capacità di sedurre a partire dalla consapevolezza di non appartenere ad alcun luogo, ad alcun tempo, ad alcun sistema, Tano Festa rivendica la mancanza di origine, si trasferisce nelle altrui immagini con la naturalezza del creatore, una memoria in bilico e un presente sospeso, una transizione che esclude la fermata, come su un aereo in volo o un treno in moto «Non mi piace essere etichettato come artista di successo […] No. A me piace “compiere il delitto” in luoghi promiscui, tra i vicoletti di Roma, e poi, riempite le tasche con quello che basta per vivere una giornata, darmi rapidamente alla fuga come un vero e proprio colpevole. Che vuoi, i soldi pesano, sono ingombranti soprattutto per uno che ha una figura corpulenta come la mia e se mi metto a fare dieci, venti quadri su una sola idea perdo la leggerezza, la fluidità dell’astuzia mercuriale» (intervista con A. Amendola, cit.), e in una furia espressiva costante, abbondante, nella consapevolezza di lavorare sulle idee della pittura, sulle idee dell’arte, Tano Festa percorre un territorio che vuole giungere alla poesia, non alle teorie precostituite.
Festa rifiuta gli inviti agli incontri truccati, guarda direttamente alla grana mentale e poetica che costituisce l’arte, e crea immagini immagini che spesso rifiutano il reale, immagini che scelgono l’arte e che si trasferiscono nella vita. La serie dei Ritratti è lo sguardo che cerca l’anima, lo sguardo che indaga i momenti più intimi dell’io, lo sguardo consapevole che la vita è un insieme vago di dati che si muovono verso un consolidamento. Intensificazioni, rafforzamenti, innesti, questi i ritratti di Tano Festa, quel «render visibile» ciò che non è visibile, in modo che le «materie d’espressione lascino il posto ad un materiale di cattura». Cattura, questo il gesto di Tano Festa, cattura le forze di una irradiazione di energia, l’essenziale non è più dunque nelle forme o nelle materie o nei temi, ma nelle forze, nelle densità, nelle intensità, forze non visibili, eppure rese visibili dalla pittura, «La filosofia, non più come giudizio sintetico, ma come sintetizzatore di pensieri, per far viaggiare il pensiero, renderlo mobile, farne una forza del Cosmo…» (Deleuze e Guattari), così come l’arte non più come opera o come insieme di tecniche più o meno allusive, ma come forza capace di mettersi in contatto con tutte le altre forze della creazione, del Cosmo. La creazione per Tano Festa è un virus di contagio, attraversa le proprie opere e quelle altrui nell’ambito di una dimensione satura di immagini, che altera il funzionamento del sistema nervoso, che agisce nella rottura dell’equilibrio tra i sensi, nell’isolamento e nel predominio dispotico di uno di essi, la vista, nell’estrema funzione della percezione. Tano Festa intuisce che la percezione è ben più di un senso è un’intelligenza, quella percezione cara a Timothy Leary, cara a Huxley, cara a tutti gli scrutatori di spazi interiori, e l’elenco sarebbe ben più lungo di quello che si potrebbe pensare. Una mente inquieta e proiettata in avanti quella di Tano Festa, e non è un caso che molti giovani artisti abbiano guardato alle sue opere come punto di riferimento. Una mente capace di intrecciare tensioni e dati, opere e poesie, un esempio di interazione fra letteratura, cultura visiva e dinamiche sociali. Una metamorfosi neuronale che ci costringe a guardare alle opere di Festa come ad una ibridazione tra colori, sogni, materie, frasi poetiche, una ibridazione che presuppone un’estensione dei sensi, immagini cariche di presagi e dense di tensioni, immagini che divengono «icone neuroniche» sulle nostre «autostrade spinali» (Ballard). Four Season, To James Joyce, Omaggio a Munch, Autoritratto, del 1984, Figura nera, L’armadio (1985), In attesa di diventare angelo, Piazza del Popolo, Il castello, Paesaggio Italiano, La finestra nelle stelle, Miraggio, Il barone rampante, Don Chisciotte, Le Erinni, I guardiani delle stelle, Nelson all’Inghilterra (1986), Yorktown, Milagros, Omaggio alla Catalogna, L’Angelo Azzurro (1987), solo alcuni tra i titoli di una fantastica produzione di opere, alcune di un eccezionale dialogo di Tano Festa con altre opere, come con quelle di Bacon, Mondrian, Velàzquez, Ensor, Vermeer, così come con Joyce, Céline, Cervantés, Rimbaud, e anche qui l’elenco sarebbe lungo. Tano Festa ha intessuto uno scambio costante e determinante tra opere e opere, come un sussurro soffuso, una serie di confidenze, una dichiarata intimità, di sguardi, di visioni, di intenti. La soglia, finalmente, sempre quella, sin dall’inizio, la soglia che appare dopo il limite, dopo gli ultimi oggetti, dopo il momento in cui lo scambio non reca più alcun interesse. La soglia, al di fuori del limite, dopo aver attraversato tutti i territori, Tano Festa la definisce come una dimensione fluida, che muta, si trasforma e permette di scegliere qualsiasi posizione al suo interno.
Si guarda un’opera di Tano Festa come si guarda il passaggio delle nuvole nel cielo, un quadro per trasfigurare lentamente la propria percezione, creando combinazioni complesse, somme azzardate, modelli di interferenza. Tano Festa crea opere per sentire la geografia dell’immaginario, la luce dell’alterità, il clima emotivo. Opere come spostamenti, incontri, linee di fuga, «Le immagini sono troppo spinte in avanti rispetto alla realtà. La pubblicità, i computers: si sta superando il livello di guardia. […] Tu mi parli dello studio, non ce l’ho più. Ma se l’avessi, dovrebbe essere come un grande giocattolo psichedelico con la musica dei Genesis e dei Pink Floyd» (inter. di D. Buffa, cit.). Ancora una volta estremamente consapevole, ancora una volta Tano Festa intuisce il nuovo spostamento visionario, lo spazio di ricerca degli anni novanta, la nuova dimensione dell’immaginario, quello spazio che in tutta la sua produzione ha evidenziato, quella temperatura e quel temperamento che ha agito e agisce ancora come moltiplicatore di immagini. Dogen Zenji, fondatore della setta giapponese Zen Soto, scrisse che la luce della luna illumina la terra intera, eppure può essere contenuta in una ciotola d’acqua, questa la consapevolezza di Tano Festa, la consapevolezza dei rapporti di grandezza, la capacità di congiunzione tra la percezione e il pensiero che trasforma, la dimestichezza con le grandi teorie sentimentali, questa la capacità di Tano Festa, mentre beve dalla ciotola d’acqua alla luce della luna.
Daniela Lancioni 2004
curatrice dell’esposizione “Tano Festa – Da Mondrian a Michelangelo-opere dal 1963 al 1878” Cinecittà 2, Roma, novembre 2004. Testo in catalogo.
Nel primo numero della rivista edita dalla galleria La Tartaruga, “Catalogo”, finito di stampare a Roma il 15 giugno 1964, sono pubblicate un paio di foto scattate durante l’allestimento di una mostra. Tra le pareti della galleria si vedono Sergio Lombardo, Franco Angeli e Giosetta Fioroni, mentre a terra, in attesa di essere sistemato alla parete, c’è il quadro di Tano Festa Particolare dei coniugi Arnolfini. Si tratta di un dipinto su tavola realizzato con l’innesto dell’immagine fotografica in bianco e nero del volto del mercante lucchese Giovanni Arnolfini, come compare nel celebre doppio ritratto del coniugi Amolfini che Jan van Eyck dipinse a Bruges nel 1434, oggi conservato alla National Gallery di Londra. Il quadro di Festa è realizzato con una tecnica che l’artista adotterà anche in altri lavori dello stesso periodo. Il ritratto dell’Arnolfini, incorniciato da un listello nero aggettante, è stampato su una carta incollata sul legno, sulla quale l’artista è intervenuto con i colori a smalto cancellando parzialmente la foto e lasciando in vista solo il particolare del viso.
Nella parte inferiore del dipinto, all’esterno della cornice che inquadra il ritratto su fondo bianco, compare la scritta: “Partic.dei coniugi Arnolfini”, una sorta di didascalia che l’autore ha stampato con l’uso di matrici. Le foto pubblicate su “Catalogo”, con ogni probabilità, sono state scattate durante l’allestimento della mostra “Angeli, Bignardi, Festa, Fioroni, Kounellis, Lombardo, Mambor,Tacchi” che si inaugurò a La Tartaruga il 5 marzo 1964 e costituiscono, a quanto è dato di sapere, il primo documento riguardo la presentazione al pubblico di opere di Tano Festa con immagini tratte da dipinti del passato. Cinque giorni dopo la pubblicazione di “Catalogo”, il 20 giugno del 1964, apriva la trentaduesima Biennale di Venezia, l’edizione nota per il trionfo della Pop Art americana, dove Tano Festa, invitato nel padiglione italiano da un comitato presieduto da Maurizio Calvesi, presentava le due versioni de La creazione dell’uomo. I due dipinti sono ripartiti in zone verticali, ciascuna inquadrata da una cornice nera aggettante. Anche in questo caso la citazione è riproposta attraverso l’impiego di una foto incollata sul legno e parzialmente dipinta.
I particolari dell’immagine, assai nota, dipinta da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina, con Adamo che protende il braccio verso il Creatore, sono distribuiti sui diversi pannelli e le due mani, che nell’originale si sfiorano, in entrambi i dipinti di Festa sono allontanate.
Tra Adamo e il Creatore c’è un intervallo, segnato da una zona scura in uno dei quadri (di cui non si conosce altra immagine che la foto in bianco e nero pubblicata nel catalogo della Biennale), e da un cielo cosparso di nuvole nell’opera della collezione Franchetti che riproponiamo nell’attuale mostra. Il 1963 è dunque la data dei primi dipinti di Tano Festa con citazioni, esposti, per la prima volta, nel corso dell’anno successivo, documentati, inizialmente, nel catalogo della Biennale, poi, nel febbraio del 1965 nel catalogo di una mostra personale nella Galleria Notizie di Torino, nella quale accanto a quadri di impianto minimalista come Dublino, Via Veneto o Piazza delle Muse, alle Persiane, agli Armadi, a un Trittico del cielo e a una Bicromia del cielo, compare un Particolare della Sistina del 1963, dove la testa di Adamo è inquadrata sotto un cielo cosparso di nuvole.
Il 1963, data infausta per la prematura morte di Francesco Lo Savio e di Piero Manzoni, è stato un anno importante per Roma, un anno da annoverare tra quelli in cui si affermano novità significative. Cesare Vivaldi le riassume in un noto e citatissimo articolo comparso nel dicembre del 1963 sul numero 12 de “Il Verri”, quello monografico dedicato all’arte dopo l’informale. Nell’articolo intitolato “La Giovane Scuola di Roma”, fortunato appellativo che verrà in seguito diversamente declinato in Scuola di Piazza del Popolo,Vivaldi identifica una compagine di artisti attivi a Roma, Franco Angeli, Umberto Bignardi,Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Mario Schifano e Cesare Tacchi, con personalità differenti e diversi caratteri stilistici, ma che insieme formano una corrente, una scuola appunto,”grazie a un minimo comune denominatore di essenziale importanza: il modo mediato e insieme aggressivo, mordente, tutt’altro che ‘indiretto’ di tenere nuovamente in conto le apparenze esterne”. “Lo sguardo dei nuovi artisti” scrive Vivaldi “è oggettivo e insieme antinaturalistico, spietato e nitido, senza espressionismi, senza soggettivismi e senza sbavature sentimentali (il che non significa che essi evitino la partecipazione del sentimento e il ‘giudizio’ ideologico e persino politico) ‘mediato’ attraverso il più apparentemente freddo e anonimo e impassibile degli strumenti ottici, l’obiettivo fotografico”. Per Vivaldi questo sguardo “mediato” era la cifra della modernità in pittura, una lezione ricevuta da Bacon, il cui senso moderno risiede “nella riduzione”, che egli per primo ha fatto, della natura a immagine fotografica e nell’uso (…) dell’immagine fotografica come unico supporto di un’arte ‘figurativa’ moderna”. Tenuto conto del precedente storico del collage, dai cubisti ai dadaisti, e dell’uso che fecero della fotografia artisti come Duchamp, Schwitters, Cornell, va detto che la mappa di quanti, nei primi anni sessanta, hanno assunto immagini fotografiche nelle loro opere è assai articolata. Un posto di rilievo lo occupano gli inglesi Richard Hamilton e Peter Blake e gli americani, naturalmente, da Rauschenberg a Warhol a Lichtenstein a Rosenquist.
Nei famosi décollage di Mimmo Rotella le immagini di matrice fotografica sono riconoscibili a partire dal 1961. Titina Maselli, un’artista di difficile collocazione, dipingeva fin dai primi anni cinquanta calciatori ricavandone le immagini dalle foto riprodotte sui rotocalchi. Atlas, la raccolta di fotografie di Gerhard Richter da cui l’artista attinge i soggetti di molti dei suoi dipinti, ebbe inizio nel 1962. Hanno una base fotografica le figure che compaiono sulle superfici specchianti di Michelangelo Pistoletto a partire dal 1962. Per tornare agli artisti della Giovane Scuola di Roma citati da Vivaldi, tratti da immagini fotografiche, per lo più trascritte sulla tela con la tecnica del ricalco e integrate con interventi pittorici, sono i Gesti tipici di Sergio Lombardo, datati a partire dal 1961, i dipinti che Schifano presenta per la prima volta nella mostra “Tutto” alla galleria Odyssia nel 1963 e nei quali, con sguardo onnivoro, l’autore ha colto dal ritratto di Leonardo ai paesaggi, agli incidenti di macchina, alle insegne pubblicitarie. Hanno origine da una immagine fotografica le Lupe e i Dollari di Franco Angeli, i quadri d’argento di Giosetta Fioroni, i ritratti di Cesare Tacchi. Tra gli artisti che in quegli stessi anni fecero uso di immagini fotografiche un posto a parte lo occupa Giulio Paolini, sul quale mi sembra necessario ragionare più a lungo in virtù del fatto che alcune sue riflessioni credo possano fornire una chiave di lettura anche per le prime opere con citazioni di Tano Festa. Pur agendo in totale autonomia, Giulio Paolini e Tano Festa, fin dal 1963, incentrarono entrambi alcune delle loro opere sulla citazione facendo uso di riproduzioni fotografiche, seppure Paolini lo fece in modo più radicale e con esiti diversi. I due artisti coltivarono, per qualche tempo, un’amicizia. Paolini racconta che si conobbero alla Biennale di Venezia nel giugno 1964. Una bella foto di Ugo Mulas registra, evidentemente, uno dei loro primi incontri, scattata nella sala personale di Mimmo Rotella dove Festa e Paolini, insieme a Plinio De Martiis, Pietro Consagra, Enrico Castellani e altri, rivolgono un saluto affettuoso al titolare assente della sala. Nell’ottobre del 1964 Giulio Paolini terrà la sua prima mostra personale nella galleria “La Salita” di Roma, la stessa dove anche Festa aveva tenuto tre anni addietro la sua prima personale e dove continuava a esporre, sebbene a quella data riservasse le mostre personali a La Tartaruga.
Non fu Festa, quindi, a presentare Paolini al proprietario de La Salita, Gian Tomaso Liverani, come non fu Paolini a presentare Festa all’amico Luciano Pistoi, nella cui galleria torinese, Notizie, Festa espose una prima volta in una mostra collettiva nel 1963. Due soli indizi testimoniano la loro amicizia. La presenza, in posizione di rilievo, di Tano Festa nel lavoro di Giulio Paolini Autoritratto, quello in cui l’autore assume le sembianze del pittore Rousseau ed appare circondato da artisti, critici, galleristi, alcuni dei quali sono, sicuramente, persone a lui care. Realizzata con un collage di immagini fotografiche per essere esposta nella rassegna “Il teatro delle mostre” a La Tartaruga nel maggio del 1968, l’opera mostra tra gli effigiati in primo piano, insieme a Lucio Fontana e a Carla Lonzi,Tano Festa nella foto di Patrizia Ruspoli ritagliata dal frontespizio di un catalogo de La Salita del 1967′. L’altro indizio è un cartoncino d’invito della galleria Notizie, dove si annuncia per l’undici aprile 1968, il giorno dopo l’inaugurazione della mostra personale di Giulio Paolini, la proiezione del film di Tano Festa Pittura ’68 (Enrico Castellani: lo spirito della contemplazione / Giulio Paolini: il tempo ritrovato) super 8 colore, 28 minuti. Il film non è stato sino ad ora rintracciato, Paolini ricorda che Festa lo girò, in parte, nel suo studio.
Il più noto tra i primi lavori di Giulio Paolini in cui compare la citazione da un dipinto del passato, risale al 1963 ed è intitolato E. Si tratta dell’immagine fotografica in bianco e nero del ritratto di Eleonora da Toledo del Bronzino, incollata su una tavoletta di faesite, sovrapposta a sua volta a un telaio, dal quale rimane leggermente distanziata. Qui, come più in generale nell’intero lavoro di Paolini, possiamo leggere l’intenzione di spogliare l’opera da ogni dato contingente. La storia, quale misura convenzionale del tempo, è stravolta dall’adozione di figure – la copia, il modello, il doppio – che annullano le distanze, non senza provocare un senso di vertigine tra passato, presente e futuro. In questa sorta di compressione temporale, la figura dell’autore subisce, invece, un processo di dilatazione e l’artista si identifica con quanti lo hanno preceduto e con quanti gli succederanno.
Una visione “universale” dell’arte espressa da Paolini anche in molti dei suoi scritti, anche nel breve testo pubblicato in questo catalogo, con il quale l’artista, eludendo la mia richiesta di una testimonianza sulla sua amicizia con Tano Festa, regala, al suo posto, una preziosa verità sull’arte. Quando Tano Festa scelse di impaginare entro la cornice convenzionale del quadro l’immagine tratta dall’opera di un autore del passato, presumo che considerasse l’atto della creazione artistica non l’espressione di una volontà isolata, ma il frutto di un processo storico, il passaggio di un testimone, una responsabilità che coinvolge più individui. L’idea dell’originalità e dell’unicità della creazione artistica, toccato l’apice con le avanguardie storiche, era stata progressivamente messa in discussione. Tra le due grandi guerre del Novecento, modellato dalla critica alla modernità avanzata nel secolo precedente, pensiamo a Schopenhauer e Nietzsche, ha acquistato credito un pensiero che sottrae all’autore il primato dell’invenzione, ma lo risarcisce con un’offerta di maggiore libertà. Libertà di accogliere nell’arte ogni diverso tipo di suggestione, purché sia palesemente assunta, si dimostri, ossia la natura critica del prelievo. Pensiamo alle spregiudicate citazioni di Picasso, ai tanti ritorni all’ordine, ai ready made di Duchamp e alla pittura di de Chirico.
Fa riflettere il fatto che in quegli stessi anni si affermò la necessità di tutelare l’assoluta integrità dell’opera d’arte antica. Nel 1938 Cesare Brandi a Roma diede vita all’Istituto Centrale del Restauro, fondato su solidi principi teorici che escludevano la possibilità di intervenire in alcun modo, se non per fini esclusivamente conservativi, sul manufatto storico. A questo rispetto filologico dell’opera d’arte antica, fece riscontro nella pratica artistica un recupero concettuale del passato, che assunse i toni espliciti della citazione e che in molti casi è stato sostenuto da dichiarazioni teoriche.
Curioso ricordare, a questo proposito, la testimonianza di Renato Mambor, di quando lui e Tano Festa per un certo periodo nel 1960 lavorarono insieme nello scantinato di un restauratore di via Margutta, “(…) un po’ per denaro un po’ per far pratica”. Non credo che il restauratore con lo studio in uno scantinato di via Margutta, che non sono in grado di identificare, eseguisse i restauri secondo le teorie di Cesare Brandi, cito l’episodio per ipotizzare che Tano Festa, intervenendo su un manufatto antico possa aver riflettuto sul rapporto tra il suo operato, all’epoca era già iniziata la sua carriera da artista, e quello di un autore scomparso. Quando sceglierà di assumere nei suoi quadri le immagini di alcune opere d’arte antiche,Tano Festa lo farà senza eludere il carattere di copia della sua citazione. In un primo tempo, infatti, l’antico si manifesterà unicamente attraverso una fotografia, spesso stampata in bianco e nero o in color seppia così da escludere con maggiore evidenza ogni equivoco tra il vero e la sua riproduzione. Anche gli Armadi, le Porte, le Finestre e le Persiane di poco precedenti sono palesemente delle copie. Non oggetti trovati, ma manufatti commissionati dall’artista ai falegnami e poi dipinti, in tutto simili agli originali, ma privi di quegli elementi che ne consentirebbero l’uso, niente maniglie né cardini: questi armadi, queste porte, finestre e persiane, non si aprono, rimangono fissati nella dimensione frontale del quadro.
Tano Festa incornicia le copie delle immagini del passato secondo un ordine compositivo che dall’artista stesso e dalla critica è riconosciuto debitore del rigore geometrico di Mondrian.
Anche questo già sperimentato nell’articolazione dei suoi precedenti lavori: le ante di un armadio, i riquadri di una finestra o di una porta, ma anche le scansioni che attraversano le superfici dei quadri monocromi esposti a La Salita nella prima mostra personale del 1961. Sulle stampe fotografiche, inoltre, come s’è detto, Festa dipinge. Con lo smalto crea superfici monocrome, sfondi informali che svelano il piacere della pittura. Le pennellate, talvolta, si distendono in un manto azzurro che la presenza di nuvole bianche trasforma in un cielo. È questo l’intervento con cui Tano Festa attualizza il passato interpretandolo e attraverso il quale precisa il suo punto di vista. Una scelta, la sua, equidistante sia dalla pittura come atto di rappresentazione, sia dall’assunzione testuale, oggettuale, dell’immagine fotografica.
È interessante a questo proposito rileggere un brano della lettera di Festa indirizzata ad Arturo Schwarz e pubblicata nel catalogo della mostra su Dada del 1966:”Se avessi usato degli oggetti trovati (vecchie porte, finestre, ecc.) questi, sia pure destituiti delle loro funzioni d’uso, avrebbero conservato il loro senso d’uso, una particolare storia e un personale e privato logorio, tutte cose che non permettono, almeno a me) ulteriori interventi e intenzionamenti se non nell’indicazione che dà l’oggetto d’uso”. Per Tano Festa, evidentemente, prelevata un’immagine dall’arte del passato o dall’habitat quotidiano, l’atto attraverso il quale esprimere il suo “intenzionamento” era, essenzialmente, quello di dipingere. Una scelta, la sua, liminare e più difficile a comprendersi.
Una posizione che coniuga fattori diversi, ancora una volta equidistante da fenomeni di maggiore nitore, dal trionfo della pittura celebrato da Mario Schifano, come dai prelievi testuali di Paolini, e poi, per citare un altro artista della Giovane Scuola di Roma, di Kounellis, che, un paio di anni dopo la lettera di Festa a Schwarz, e con sensibilità decisamente differente, sostenne la necessità di accogliere il racconto dei luoghi in cui di volta in volta l’opera si manifesta.
Con questi artisti, però,Tano Festa credo condividesse il pensiero di fondo che la modernità risiede nel modo nuovo con il quale si guarda alle cose di sempre. Vedere con occhi nuovi, sosteneva Giorgio de Chirico, era l’autentico segreto della modernità, fare in modo che le cose più consuete possano mostrarsi nel loro aspetto più inquietante (ma anche più appagante): nell’aspetto eterno. Superato il pensiero evoluzionistico e divulgate le scoperte di Einstein sulla relatività, ad essere investito d’importanza è il punto di vista. La prospettiva, tanto evocata da Paolini, dalla quale i fenomeni si osservano. Il taglio dell’immagine che può incidere profondamente, trasformandolo, persino sul soggetto colto nella sua più viva immediatezza dall’obiettivo di una macchina fotografica, come aveva dimostrato Cartier-Bresson. Ma anche uno studio che restituisce importanza a fatti precedentemente trascurati. Appartengono alla stessa generazione di Tano Festa, o lo precedono di poco, gli storici dell’arte Maurizio Calvesi, Maria Drudi Gambillo, Enrico Crispolti, Paolo Fossati, Maurizio Fagiolo dell’Arco, che in Italia hanno riconosciuto l’importanza del Futurismo e di altre vicende dell’arte prima condannate per le loro implicazioni con il Fascismo. E ancora, le ricerche antropologiche che, aprendo lo sguardo su altri popoli hanno fornito gli strumenti per scardinare l’etnocentrismo dogmatico e assumere il punto di vista dell’alieno.
Così Ernesto De Martino, il celebre autore de II mondo magico, analizzando riti e tradizioni popolari, ha contribuito a nobilitare usi e costumi prima considerati barbari. Plinio De Martiis, il gallerista di Tano Festa, figura eccezionale di intellettuale, da poco scomparso, era anche fotografo. Prima di aprire La Tartaruga, quella del fotografo era la sua professione, lavorava per “L’Unità” e per “Vie Nuove”, un altro giornale del Partito Comunista Italiano e insieme a Franco Pinna, Caio Garrubba e ad altri aveva fondato l’agenzia Fotografi Associati (sul modello dell’agenzia Magnum e avendo come riferimento Cartier-Bresson). Nei primi anni cinquanta aveva partecipato ad alcune ricerche antropologiche condotte dall’amico etnomusicologo Diego Carpitella, che, come De Martino, ricorreva, per le sue indagini, alle immagini fotografiche.
Tano Festa, come è noto, si era diplomato presso l’Istituto d’Arte dove aveva scelto di specializzarsi in “Fotografia Artistica”. Il concetto di taglio dell’immagine, dell’inquadratura che seleziona i particolari e che ridisegna l’oggetto osservato doveva essergli familiare. Ma nel tentare di ricostruire l’humus nel quale apparvero le tavole con citazioni dall’antico di Tano Festa, tra le figure di una città destinata a occupare una posizione di rilievo nell’immaginario dell’artista, è d’uopo, naturalmente, chiamare in causa Giorgio de Chirico. All’epoca in cui Tano Festa esordì, il Pictor Optimus viveva pressoché isolato, pur abitando nella centrale piazza di Spagna e frequentando il Caffè Greco, altero, sprezzante e inavvicinabile, come alcuni lo ricordano, provocatoriamente asserragliato nel disprezzo delle Avanguardie. Stava per diventare l’autore di culto di una nuova generazione di artisti. Come è noto Tano Festa sarà tra questi e la critica lo riconobbe presto.
Prima ancora che si sviluppassero in Italia le ricerche storiche sulla Metafisica, alla Metafisica cominciarono a fare riferimento i critici nello scrivere su quegli artisti che tentavano, con esiti originali, di trascendere il quotidiano, conferendo un’aura alle cose più comuni.
Dai documenti che ho potuto reperire risulta che il primo a fare riferimento alla Metafisica per il lavoro di Tano Festa fu Giorgio De Marchis, nella presentazione in catalogo della mostra personale a La Tartaruga, nel maggio del 1963. In quell’occasione Festa espose opere come Piazza del Popolo, Finestra, La sala degli specchi e Armadio, tutte del 1963. A proposito di queste opere De Marchis scrive “(…) questo riproporre l’oggetto come cosa e come immagine, come apparenza e come realtà, ne fa qualche cosa di ambiguo; alla certezza di riconoscerlo si unisce il sentimento che sia annuncio d’altro, cosicché più giusto pare un riferimento alla pittura metafisica esplicito in certi titoli come Nostalgia dell’infinito,e il tema stesso degli oggetti di mobilio è di gusto metafisico, ma soprattutto l’aria vagamente onirica di questi oggetti così solidi e spessi, cui la copertura di colore, come il bianco porcellanoso dell’obelisco, dà un valore irreale proprio nella loro veste visibile (…)”. Lorenza Trucchi nel recensire la mostra de La Tartaruga scrive di una “mal celata nostalgia metafisica (…) meno Mondrian (…) e più de Chirico sia pure rivisto attraverso l’occhio barbaro e candido di un Jasper Johns o di un Jim Dine”. Anche Giancarlo Politi nel recensire la mostra su” La Fiera Letteraria” fa riferimento alla “stagione metafisica del 1920′. Cesare Vivaldi, che aveva già commentato i monocromi di Tano Festa nel catalogo de La Salita del 1961, introducendo il catalogo della mostra personale che s’inaugura alla galleria Schwarz di Milano nel maggio del 1963, azzarda un’intuizione destinata a rimanere una costante nella critica sull’artista, vale a dire, la compresenza di ascendenze apparentemente distanti: i pittori olandesi della linea che da Vermeer va sino a Mondrian e la pittura metafisica di de Chirico e Carrà. “Festa” scrive Vivaldi “guarda alla pittura d’interni seicentesca e alla spazialità di Mondrian con occhio metafisico”. Dichiara che il lavoro di Festa è ancora sullo spazio e sulla luce e nell’affrontare il confronto, obbligato per un giovane artista, con i novorealisti di Restany, introduce la bella figura di “camere incantate” per definire gli spazi abitati dalle opere di Tano Festa.”Isolate da ogni usuale contesto” scrive “le persiane sono l’equivalente perfetto (…) del ‘manichino’ metafisico: segnano un’ora diversa’, scandiscono uno spazio diverso. (…) Lo spaesamento surrealista dall’interno del quadro è spostato all’esterno”. Quando apparvero dipinti con citazioni, alla Metafisica farà riferimento anche Calvesi e nel testo per la Biennale di Venezia del 1964, in merito ai quadri da Michelangelo scrive di un senso di arresto e di sospensione che,”verificandosi su svuotati testi rinascimentali, diviene metafisico con la partecipazione di un’intelligenza ironica”.
Le cornici entro le quali Festa pone le sue citazioni, i campi monocromi con i quali isola alcuni particolari, come accade ne La grande odalisca del 1964 esposta nell’attuale mostra, testimoniano un ordine mentale la nuova di ascendenza costruttivista, ma sono anche l’inedita versione di uno spazio metafisico. Come le piazze, le stanze, i palcoscenici della pittura metafisica, nei quali gli oggetti comuni si mostrano nel loro aspetto eterno, così le cornici di Tano Festa strappano un particolare dal suo contesto di origine per inserirlo in una nuova dimensione. Per stagliarlo, talvolta, contro lo spazio infinito di un cielo. La cornice è un segno di confine, di distinzione, è l’indicatore di qualcosa alla quale si vuole dare un valore straordinario. La sensazione è che all’interno delle sue cornici Tano Festa ponga affettuosamente al riparo le immagini amate. Al riparo da che cosa?
In quegli stessi anni Giulio Carlo Argan si rivolgeva agli artisti mettendoli in guardia dal pericolo rappresentato dalla nuova classe egemone che, attraverso il potere persuasivo delle immagini, incrementava il proprio profitto riducendo la società a una massa metafisica di consumatori dai gusti omologati. Come è noto, Argan non amava la Pop Art (dal cui ambito escludeva però Rauschenberg e Johns), perché credeva assumesse proprio la copertura l’insieme d’immagini di cui si servono i gruppi di potere per condizionare valore irreale il comportamento dei consumatori, e sosteneva, di contro, l’arte “programmata” o “ghestaltica”. Ma la sua lucida visione poteva essere condivisa da Tano Festa, il quale di fatto sottraeva l’immagine, o meglio il particolare di una immagine, al circuito della comunicazione, creando tra quel particolare e il resto del mondo una zona disabitata, una sospensione di senso, ricostruendo quell’intervallo di cui Gillo Dorfles in un illuminante saggio ha lamentato la perdita,”quell’aspetto di separazione, di pausa di interruzione, Tano Festa capace di evidenziare determinati elementi (…) fondamentale per ogni creazione e per ogni equilibrio vitale”». Si tenga presente che nei titoli di Festa, come in quelli coevi di Mario Schifano, compare la parola “particolare” che, al contrario del termine “frammento”, molto usato proprio a partire dagli anni sessanta, pone l’accento su un’idea di selezione operata al fine di consentire una più attenta osservazione: come quando nei libri esca d’arte si riproduce il particolare di un dipinto per consentire che il lavoro la lettura dei dettagli e nella didascalia dell’illustrazione compare l’abbreviazione “partic.”, la stessa riportata da Festa nelle “didascalie” dipinte nei suoi quadri. Inoltre i brani che l’artista preleva dalle opere d’arte del passato sono sempre le figure centrali, quelle intorno alle quali si articola la visione, l’apice del racconto, come è evidente nel particolare della Sistina che raffigura l’incontro tra l’uomo e il Creatore. Agendo in un’epoca in cui è maturata l’idea dell’impossibilità di cogliere i fenomeni nella loro interezza, Festa sembra prediligere un tipo di intervento che non ponga l’accento sul lacerto, sulla ferita, sulla dissoluzione e frammentazione della visione, ma, al contrario, su un processo di selezione, esaltazione, celebrazione. E se il particolare de La grande odalisca del 1967 o della Creazione di Adamo,come accade in due dei dipinti esposti nell’attuale mostra, è scomposto, si può dire smembrato, su pannelli diversi, questo può leggersi nel senso di una visione vitalistica, tradotta in termini di ritmo, secondo uno schema visivo che Festa si portava dietro fin dai monocromi, quelli scanditi dalle carte e poi dai listelli di legno. Propensione al ritmo dichiarata, quando la scansione verticale del quadro si era trasformata in una tastiera, nella serie dei dipinti intitolati ad Albinoni. Il termine “particolare”, infine, se usato come aggettivo, può indicare ciò che è fuori dal comune, dall’ordinario.
Qualcosa, quindi, da desiderare, da trattare come un oggetto d’amore. Una dolcezza emana dai racconti sulla vita di Tano Festa, sebbene la sua sia stata un’esistenza non sempre facile. La stessa dolcezza e un sentimento di affetto esuberante si avvertono nelle lettere che l’artista ha scritto agli amici. La componente affettiva non doveva essere estranea all’arte di Tano Festa.
Nelle prime opere con citazioni ricavate da matrici fotografiche, Tano Festa tratta un numero assai limitato di soggetti: per quanto ho potuto verificare solo tre, l’Adamo della Creazione della Sistina e I coniugi Amolfini già citati e La grande odalisca di Ingres. Non credo sia lecito attribuire un significato univoco alla scelta di questi soggetti. Mi limito a sottolinearne il numero esiguo quale indizio di una selezione, di carattere affettivo direi, che nulla ha a che vedere con la sovrabbondanza di segni che caratterizza i combine painting o con la prassi di annoverare o catalogare adottata in opere di carattere più concettuale. Aggiungo solo una breve nota sui soggetti trattati. Fa riflettere che in due immagini su tre le mani dei personaggi si tocchino in un contatto d’amore; che l’immagine della Creazione non possa non essere messa in relazione con l’operato di un artista; che l’Odalisca chiami in causa la bellezza femminile, e che alcuni studiosi abbiano riconosciuto nel disegno antinaturalistico di Ingres l’incipit dell’arte moderna. Che il moto affettivo fosse tra le possibilità espressive di Festa ne dà conferma la serie dei quadri esposti nella mostra personale a La Tartaruga nel 1970, nei quali, invece delle immagini fotografiche tratte dai dipinti del passato, compaiono quelle dei familiari dell’artista. Prima di abbandonare l’argomento, ricordo che Tano Festa non ha mai dedicato ai quadri con citazioni tratte da immagini fotografiche un’intera mostra. I più significativi sono stati riproposti in alcune delle principali rassegne cui l’artista venne chiamato a partecipare: oltre alla Biennale citata,”Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70″, curata da Achille Bonito Oliva per gli Incontri Internazionali d’Arte e tenutasi al Palazzo delle Esposizioni di Roma tra il 1970 e il 1971 e “La ricerca estetica dal 1960 al 1970” curata da Filiberto Menna nel 1972 per la “X Quadriennale d’Arte di Roma”.
Nel 1965 Tano Festa si recò per la prima volta a New York, dove una sua Persiana era stata esposta due anni prima alla Sidney Janis Gallery nella mostra “New Realists”, la rassegna internazionale ordinata da John Ashbery e da Pierre Restany. Non risulta che prima del viaggio in America Festa abbia mai esposto dipinti realizzati con la tecnica del ricalco. Il primo compare nel cartoncino di invito della mostra personale a La Tartaruga nell’ottobre del 1965, ed è una citazione dall’Aurora scolpita da Michelangelo sul sarcofago di Lorenzo de’ Medici nella Sacrestia Nuova della Chiesa di San Lorenzo a Firenze. Nello stesso quadro compare anche una composizione con squadre che ricorda quelle dei dipinti metafisici di de Chirico.
Il soggiorno di Tano Festa negli Stati Uniti, intervallato da un viaggio in compagnia di Mario Schifano con fulminee tappe a Mexico City e ad Acapulco, “eccezionale e massacrante” che, l’artista ne era sicuro, nessun beat aveva fatto come loro “tutto in una tirata”, era stato in parte finanziato dalla galleria La Tartaruga, oltre che da Plinio De Martiis, dai suoi sostenitori, l’avvocato Giorgio Balella e il Barone Giorgio Franchetti. Le vicende di quel soggiorno e di quello successivo a New York nel 1967 si possono ricostruire attraverso le lettere che Tano Festa ha scritto agli amici, in particolare a Giorgio Franchetti, uno degli Amici del cuore celebrati nel famoso dipinto del 1967, lettere che ho potuto leggere grazie alla disponibilità del collezionista e della sua famiglia.
A New York Festa lavorò in uno studio a Brooklyn, in parte disilluso dalla freddezza di Leo Castelli, ammirato dalle opere degli artisti americani, Rauschenberg, Oldenburg, Lichtenstein, Dine, ai quali riserva commenti lusinghieri anche dal punto di vista umano, ma critico verso quanti in Italia mitizzano New York -“insomma bisognerebbe smetterla di guardare quelli che tornano da New York come se tornassero dal Paradiso Terrestre “. Nel deposito de La Tartaruga, come si deduce dalla corrispondenza con Franchetti, di ritorno da New York, approdarono quadri come Scène de ballet, Fresh Window, Giallo di cadmio, Rosso di cadmio, Particolare della porta, Particolare della finestra, Particolare dello specchio, tutti dipinti a smalto, sulla superficie dei quali si affastella un collage di immagini e di citazioni diverse. In alcuni Festa cita se stesso inserendo opere, o particolari di opere, che ripropongono i temi dei suoi precedenti lavori.
Tra le citazioni diverse prevarrà l’Aurora di Michelangelo e molti dei lavori di Tano Festa, per tutta la seconda metà degli anni sessanta, saranno una variante su questo tema. L’immagine dell’Aurora sarà ripetuta su uno stesso quadro, ripetuta e sovrapposta, tradotta in negativo, combinata con altri elementi: squadre, raggi, una scacchiera, la scritta “Michelangelo” “spezzata come in un quadro futurista”. Da Mondrian a Michelangelo è il titolo dato da Tano Festa a una serie di dipinti del 1968, nei quali l’immagine dell’Aurora compare all’interno di un sistema di ortogonali dedotto dai quadri di Mondrian. Quel sistema con il quale Mondrian contrastava la fusione di colori creando un limite, una cornice che separasse i diversi campi, così da sfuggire all’oppressione del tragico e approdare a una chiara visione della realtà vera, universale. Come in un ossimoro, quello stesso sistema si combina nei quadri di Tano Festa con una visione parcellizzata, quella del “particolare”, e in alcuni casi con il non finito, come nel quadro della collezione Gropello, nella cui zona inferiore del colore non arrivano che sgocciolature. Da Mondrian a Michelangelo è il titolo scelto per questa mostra a Cinecittàdue arte contemporanea, che raccoglie un nucleo significativo delle opere di Tano Festa con immagini tratte da opere del passato, perché sintetizza il percorso dell’artista, dal rigore neocostruttivista alla citazione e allude a un tempo che, a ritroso rispetto a una cronologia storica, ma nella giusta direzione se valutato dal punto di vista dell’autore, abbraccia l’operato di tutti gli artisti del suo personale pantheon. Con un altro soggetto, nella seconda metà degli anni sessanta, Festa pone in atto l’esercizio delle varianti, l’immagine del Peccato originale della Cappella Sistina, con la Tentazione che porge a Eva il frutto proibito. Spesso lo stesso soggetto, diversamente trattato, è ripetuto su tele diverse accostate, come nel trittico della collezione di Patrizia Ruspoli esposto nell’attuale mostra. In questo dipinto del 1968, realizzato in casa della collezionista in un periodo in cui l’artista non aveva un suo proprio studio, ciascuna delle tre varianti è incorniciata in un rettangolo i cui lati non sono paralleli a quelli della tela, ma sono disegnati in modo da dare, singolarmente e ancor più nella loro sequenza, l’impressione di una fuga prospettica.
Permane l’attitudine a inserire le immagini al riparo di una cornice, ma ora la sequenza delle zone inquadrate crea un sistema di superfici slittanti, lo stesso che ha suggerito a Fagiolo dell’Arco il confronto con lo scorrimento di una pellicola’. Sulle tele che compongo il trittico della collezione Ruspoli, oltre alla dichiarazione di quadro non finito è riportato, come in altre opere, un riferimento a Picasso. Sul retro di una delle tele la scritta autografa recita: “Periodo rosa“, mentre in alcuni dei quadri dal Michelangelo delle Tombe Medicee, dipinti con smalto azzurro, il riferimento è al “Periodo blu”. Anche in questo caso, come accade nei dipinti intitolati Da Mondrian a Michelangelo,Tano Festa suggerisce una relazione incongrua,”celebrando con ironia”, scrive Fagiolo dell’Arco “le nozze tra il ‘sublime’ antico e moderno'”. Per il Peccato originale, come per l’Aurora, la quantità delle varianti dipinte non intacca mai la qualità della pittura.
Da sempre, la critica ha messo in luce la perizia manuale con la quale l’artista eseguiva i suoi quadri e l’accuratezza con cui ne realizzava o ne faceva realizzare, le diverse componenti, ad esempio la base lignea delle persiane, degli armadi o delle porte, o le stampe fotografiche eseguite dal fotografo Mimmo Capone. C’è un film di Plinio De Martiis girato in uno degli annessi di Villa Miani a Roma, nell’ex caserma, dove Tano Festa per qualche tempo all’inizio degli anni settanta ha avuto lo studio, il suo studio più bello, dove chiamò Cristina Ghergo a fargli le foto, due delle quali sono pubblicate in questo catalogo. Nel film si vede l’artista chino sulla tela stendere con grande attenzione il colore, meticolosamente. Goffredo Parise, racconta Festa in una lettera a Franchetti, diceva di lui che teneva in mano il pennello come una penna. Lusinghiera allusione, forse, alla sua attività di poeta, ma anche osservazione riferibile a una perizia da amanuense. “I quadri sono tutti sul Michelangelo delle Tombe Medicee” scrive Festa a Franchetti all’inizio del suo secondo soggiorno newyorkese nell’ottobre del 1967, descrivendo le opere che stava realizzando nello suo studio al Chelsea Hotel. Nella lettera, di cui pubblichiamo una ristampa anastatica, l’artista schizza anche lo schema di una serie di dipinti,”con il fondo giallo con delle sbarre nere orizzontali”, lo stesso del quadro Michelangelo according to Tano Festa della collezione Marta Marzotto che esponiamo nell’attuale mostra. Michelangelo according to Tano Festa si intitola anche un’altra delle opere selezionate per la mostra a Cinecittàdue, il dipinto della collezione Barbara Burgerhout, anch’esso eseguito a New York nell’ottobre del 1967 e nel quale convivono il volto dell’Aurora ripetuto in sequenza, una linea di demarcazione,”sbarra orizzontale”, arancione, il cielo attraversato da nuvole e un gruppo di stelle. Il titolo trascritto dall’artista sul retro, The Strike of the Stars, è lo stesso di un progetto di scultura schizzato in una delle lettere inviate da Festa a Giorgio Franchetti durante il suo secondo soggiorno newyorkese”. Molti dei quadri dipinti a New York saranno esposti nell’autunno del 1968 in una mostra alla Galleria Arco d’Alibert di Roma presentata da Furio Colombo, che scriverà dell’ossessione che Tano Festa si è portato da Roma a New York e delle casse piene di Michelangelo che ha riportato dall’America, anche se saranno dei Michelangelo diversi, scrive Colombo,”per lo smalto più smagliante e più duro che si trova solo a New York (…) per le invenzioni grafiche (…) per le citazioni pop”. Nei disegni che Festa pubblica nel catalogo della mostra, al contrario, l’immagine da Michelangelo è ridotta ai minimi termini, quasi una sfida a riconoscere il soggetto tante volte trattato.
Il 1967 è un’altra data significativa per l’arte, soprattutto in Italia. È l’anno in cui Germano Celant fonda le basi critiche dell’Arte Povera. Si afferma una nuova forma di realismo, gli artisti abbandonano l’artificio della pittura e, con più evidenza di quanto non fosse mai accaduto prima, fanno uso di materiali non lavorati. A Roma nel 1967, nella galleria del giovane Fabio Sargentini, Kounellis mette in opera il fuoco, animali vivi, un giardino di piante grasse, Pino Pascali l’acqua e la terra. Nell’autunno di quell’anno Festa a New York è ancora impegnato nel confronto con la Pop Art americana e all’egemonia di quella cultura farà fronte rafforzando la coscienza delle proprie radici culturali. La sua strategia è opposta a quella teorizzata da Celant “che conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal clichè che la società gli ha stampato sul polso”. Invece di eliminare ogni traccia dello stile,Tano Festa ne accentuerà la persistenza, non solo con l’iterazione di una immagine, ma anche con l’ostentazione di una identità sedimentata attraverso un processo storico, attraverso l’opera dei tanti artisti che lo hanno preceduto e ai quali non cesserà d’ora in poi di fare riferimento. Saranno diverse le soluzioni formali con le quali negli anni Tano Festa volgerà la propria attenzione ad altri artisti, sempre in una forma prossima all’omaggio. Esprimendo un moto di ammirazione, l’adesione a un pensiero, verso pittori, ma anche fotografi, come nella serie dedicata alla celebre foto con il miliziano della guerra civile di Spagna di Robert Capa, o registi, come nei dipinti con II falciatore che ripropongono il fotogramma di un film di Dreyer, spesso poeti, come nella tante dediche a Eliot, Pound, Penna.
Sulle ragioni di un’arte di citazione Tano Festa non ha mai teorizzato, ma negli anni, sollecitato da intervistatori diversi, più di una volta ha rilasciato dichiarazioni. Una delle prime risale al 1966 e si trova nella lettera indirizzata a Schwarz citata:”(…) All’inizio del ’62 passando per via due Macelli vidi attraverso la vetrina di una libreria la riproduzione del quadro di van Eyck I coniugi Arnolfini. Osservando il quadro mi sembrò che il suo vero protagonista fosse il lampadario, perfettamente immobile, come se nulla, nemmeno un forte vento potesse farlo oscillare. Questo lampadario incombe sulle figure degli Arnolfini come qualcosa che sta a misurare la durata e quindi il limite delle loro esistenze. Pensai con malinconia che gli Arnolfini sarebbero scomparsi molto prima del lampadario, che da tutta quella scena sarebbero stati i primi ad uscirne, mentre gli oggetti sarebbero rimasti ancora per lungo tempo al loro posto, testimoni muti e impassibili delle loro esistenze. Questa intuizione della sopravvivenza dell’oggetto, della sua possibilità di essere protagonista, mi affascinò. (…)”. Tema della lettera sono, in realtà, le sue persiane,gli armadi, le porte, gli oggetti “ricostruiti”, specifica l’artista in un passo noto,”non nel momento dell’uso, ma in quello della contemplazione”. Colpisce, però, l’allusione a quel lampadario che all’epoca in cui la lettera venne pubblicata già compariva al centro di un altro dipinto del 1963, intitolato Particolare dei coniugi Arnolfini, appartenente alla collezione Nicola Bulgari, che riproponiamo nell’attuale mostra.
In un’intervista rilasciata a Giorgio De Marchis e pubblicata nel catalogo della mostra personale nella galleria La Salita di Roma nell’aprile del 1967, ripercorrendo le diverse tappe del suo lavoro, Tano Festa ne motiva la presenza di immagini tratte dagli affreschi di Michelangelo alla Cappella Sistina come una forma di attenzione a quanto gli sta intorno:”cose profondamente legate a Roma, al tipo di immagine che si consuma qui”.”Un americano dipinge la Coca Cola” prosegue Festa, “come valore per me Michelangelo è la stessa cosa nel senso che siamo in un paese dove invece di consumare cibi in scatola consumiamo la Gioconda sui cioccolatini”.
In questi termini il prelievo di immagini dalle opere d’arte del passato non è così diverso dalla presenza, nei suoi lavori precedenti, di armadi, specchi, finestre, ossia, degli oggetti che abitano il nostro domestico quotidiano e che abbiamo costantemente sotto gli occhi, e neanche dall’ispirazione dei primi monocromi che Tano Festa dice realizzati con i “colori semplici dell’astrattismo classico, tradizionale, di Mondrian per esempio” ritrovati nel verde di un semaforo e nelle stesure piatte e squillanti della pubblicità stradale. Nella stessa intervista, a una domanda sulla tecnica di esecuzione delle opere, Festa risponde “Sono collages fotografici incollati su legno, io poi su questi collages dipingo delle zone anche per assimilare l’immagine al fondo, proprio per non dare questo senso, che a me non interessa, del collage. Questa cosa la pensai nel ’63 a Parigi al Louvre vedendo la Grande Odalisca che poi ne ho fatto un quadro, cioè pensavo che un quadro quando piace, uno l’assume come assume qualsiasi altro oggetto: io guardavo questa Grande Odalisca e pensavo ‘questa cosa mi piace, potrei metterla in un quadro come potrei metterci una pianta, una macchina, una persiana’. “Come immagine trovata?” chiede De Marchis. “Mai come immagine trovata per caso” risponde l’artista “non è che uno fa un percorso casuale per la città e si serve delle immagini come trovarobe. Uno deve seguire un po’ la sua storia, la sua vocazione”. Aprono prospettive diverse le considerazioni sul medesimo tema pronunciate da Festa negli anni successivi.
Se in una intervista del 1986 con Antonella Amendola il punto di partenza è sempre il confronto con la Pop Art americana, della citazione l’autore dà una lettura più complessa:”(…) Mi dispiace per gli americani che hanno così poca storia alle spalle, ma per un artista italiano, romano per di più vissuto ad un tiro di schioppo dalle mura vaticane, popular è la Cappella Sistina, vero marchio del made in Italy (…)”. Comunque più in generale il mio rapporto con Michelangelo è un rapporto di plagio perché l’arte è plagio”. Alla richiesta di Antonella Amendola di spiegarsi meglio Festa risponde: “Credo che l’arte sia una specie di catena di Sant’Antonio che prende le mosse dai primi graffiti degli uomini primitivi sulle pareti delle caverne: solo che invece di scriver lettere gli artisti rubano l’uno all’altro, di padre in figlio, di generazione in generazione. E il loro furto è trionfalmente legalizzato, onorato e mercificato in soldi dalla società civile. Pensa a un grande come Picasso, uno che ha spaziato e sperimentato in innumerevoli direzioni: se guardi la sua fotografia realizzata da Cartier-Bresson, e spii attentamente i suoi occhi ardenti di andaluso, vi scorgi il brillio luciferino della Criminalità pura”. A parte la nota sarcastica, quasi amara, senz’altro dissacratoria, del furto legalizzato degli artisti e premiato dalla società con il denaro, il concetto di plagio, introdotto in questa intervista, ferma restando l’urgenza del confronto con la Pop Art americana, introduce una prospettiva più ampia.
Fa riflettere il fatto che nel maggio del 1976 i romani poterono visitare una mostra di Tano Festa da Gian Enzo Sperone, la galleria che aveva tenuto a battesimo l’Arte Povera e che per tutta la prima metà degli anni settanta aveva esposto artisti internazionali di area concettuale. Colpisce il fatto che la mostra di Tano Festa preceda di pochi mesi quella di Francesco Clemente, la prima di una serie di esposizioni con le quali Gian Enzo Sperone contribuì all’affermazione della Transavanguardia. Nella mostra da Sperone, Festa espose tre opere tridimensionali e due quadri, entrambi ispirati al dipinto di Velàzquez Las Meninas. Dipinto celebre di per sé, ma anche per le citazioni che ne fece Picasso. Singolare per la presenza di uno specchio che, come nei I coniugi Amolfini di van Eyck, permette di vedere contemporaneamente la scena ritratta e il pittore che la sta dipingendo.
I due quadri esposti da Sperone sono realizzati con una tecnica di nuova adozione per Tano Festa: l’immagine da Velazquez è emulsionata direttamente sulla tela e poi, più che dipinta, si direbbe colorata di rosso. In una delle due opere Festa cancella, con lo smalto nero, la figura di Velazquez, nell’altro quella dell’Infanta. Il processo di selezione operato attraverso l’atto della cancellazione è simile a quello adottato sulle immagini fotografiche nei quadri degli anni sessanta.
Le tre opere tridimensionali esposte nella mostra da Sperone, il cui titolo è “Storia familiare degli utensili”, sono una bara di plexiglass con il nome e le date di nascita e di morte di Monet, un allineamento di dodici cavalletti su ciascuno dei quali è montato uno degli specchi di Tano Festa e un pattino dipinto con il motivo del cielo. Dove i remi toccano terra è dipinta una pozza blu. L’imbarcazione, come appare in una fotografia scattata durante la mostra, adagiata sul parquet della galleria, fa pensare alle stupefacenti apparizioni dei Bagni misteriosi di de Chirico o agli itinerari di Ebdòmero “(…) doveva fuggire. Fece in barca il giro della sua camera.
Achille Bonito Oliva, il critico che ha teorizzato la Transavanguardia – sguardo laterale, genius loci, citazione – seguì sempre con attenzione l’opera di Tano Festa e lo invitò in molte delle sue grandi mostre: oltre a “Vitalità del negativo”,”Contemporanea” nel 1973 e “Minimalia” nelle sedi di Venezia, Roma e New York tra il 1997 e il 2000.
È stato Bonito Oliva, inoltre, a firmare la mostra dedicata dal Comune di Roma a Tano Festa nel 1988 e a inserire una retrospettiva sui fratelli: Lo Savio e Festa nella Biennale di Venezia del 1993, affidandone la cura a Maurizio Fagiolo dell’Arco che in quella occasione raccolse una documentazione, comprese le testimonianze di tanti amici, divenuta strumento insostituibile per l’esegesi dell’artista. “(…) Festa è artista ‘cattolico, apostolico, romano” ha scritto Bonito Oliva nel 1988 citando una definizione di Tano Festa “crede nell’iconografia figurativa, alla rappresentazione come momento di fondazione di uno stile, di un comportamento in questo caso temperato dal senso della storia, dal peso consapevole di immagini mitiche dell’arte, che portano l’artista all’umiltà di una leggerezza espressiva. Segno di grande gravità morale, della necessità di una misura in fondo dialogante fuori dalla superbia di chi pensa di poter cancellare il mondo, l’universo iconografico dell’arte occidentale, col proprio segno (…)”. Nel segno del dialogo e della non arroganza s’è articolata l’arte di citazione di Tano Festa. Nonostante un vissuto del quale alcuni ricordano l’insofferenza e l’irriverenza, la sua è stata l’espressione di una coscienza che ha saputo riconoscere la presenza dell’Altro, modello contemporaneo, insieme ad altri, di civiltà.